sabato 21 novembre 2015

L'arte di tacere (le regole d'oro dell'abate Dinouart)

Nell'epoca dei social network e dell'opinione facile, non v'è nulla di più bistrattato della Parola ed è andata perduta la nobile arte del tacere.
Tutti sentono il bisogno di dire il proprio punto di vista; legittimo, sia mai. Ma non bisogna forse aver studiato a fondo un argomento per poter esprimere qualcosa a riguardo? 
Nel tentativo di recuperare la nobile arte del tacere, riporto in seguito le regole d'oro del silenzio dell'abate Dinouart:

1) Bisogna parlare solo quando si ha qualcosa da dire che valga più del silenzio.
2) C'è un momento per tacere e un momento per parlare.
3) Il momento di tacere ha la precedenza; si potrà essere capaci di parlare correttamente solo quando si sarà imparato a tacere.
4) Tacere quando si è obbligati a parlare è indice di debolezza o imprudenza, ma non si mostra minor leggerezza a parlare quando si deve tacere.
5) In linea di massima, è certamente meno rischioso tacere che parlare.
6) Mai l'uomo possiede se stesso come nel silenzio: al di fuori di questo stato, egli sembra dissolversi attraverso le parole. Così appartiene meno a se che agli altri.
7) Quando si deve dire una cosa importante occorre prestare attenzione: è opportuno dirla prima a se stessi e, dopo questa precauzione, ripetersela per non doversi pentire in seguito quando non si sarà più in grado di impedire che ciò che è stato detto si diffonda.
8) Quando bisogna mantenere un segreto non si tace mai abbastanza.
9) Il riserbo necessario per mantenere il silenzio nelle circostanze ordinarie della vita non è una virtù minore della capacità e dell'impegno necessari per parlare bene. Non c'è maggior merito nello spiegare ciò che si sa piuttosto che nel tacere ciò che si ignora. Il silenzio del saggio talvolta ha maggior valore delle argomentazioni del filosofo. Il silenzio del primo è una lezione per gli arroganti e una punizione per i colpevoli.
10) Il silenzio sostituisce la saggezza in un uomo limitato e la competenza in uno ignorante.
11) Per natura si è portati a credere che chi parla poco non è un genio e chi parla troppo uno sventato o un pazzo. E' preferibile non apparire un genio di primordine piuttosto che passare per pazzo (e togliere ogni dubbio, aggiungerei n.d.r.)
12) E' peculiare per l'uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese. E' peculiare per l'uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli.
13) Quand'anche si abbia una predisposizione al silenzio è opportuno diffidare sempre di se stessi; quando si prova il forte desiderio di dire una cosa, è spesso un motivo sufficiente per decidere di non farlo.
14) Il silenzio è necessario in molte occasioni, ma bisogna sempre essere sinceri; si possono tenere per sé alcuni pensieri, ma non bisogna mai mascherarne nessuno. Ci sono modi di tacere senza chiudere il proprio cuore, di essere discreti senza sembrare cupi e taciturni, di nascondere certe verità senza dissimularle con la menzogna.

Io ho in mente molti personaggi (pubblici e non) a cui sarebbe utile uno studio di questi principi, e voi?

Daniele Palmieri

giovedì 19 novembre 2015

Le religioni incitano all'odio?


Da molti anni a questa parte mi ritengo ateo. O, meglio, come preferisco definirmi: diversamente religioso.
Trovo che la parola "ateo" di per sé non abbia molto senso. Non è una definizione; è un termine nato con accezioni dispregiative che significa "senza Dio". Definirsi tramite una non-definizione non mi sembra una cosa sensata.
Non credo in un Dio creatore dalle fattezze antropomorfe che si diverte a dettare le regole del paradiso e dell'inferno, dimenticandosi del mondo in carne e ossa.
Tuttavia, non rientro in quella categoria di "atei integralisti" alla Richard Dawkins che ritengono le religioni il male del mondo e che si divertono a estrarre passi violenti qua e là dai testi sacri per dimostrare la propria superiorità nei confronti dei credenti.
Al contrario, nutro una forte tensione spirituale nei confronti dei testi sacri, di ogni religione. Mi sono avvicinato a Cristianesimo, Ebraismo, Islam, Induismo, Taoismo, Buddhismo e Shintoismo (anche se le ultime richiederebbero un discorso a parte), leggendo i principali testi canonici e, nei limiti delle pubblicazioni presenti in Italia, i principali esegeti degli stessi.
Ritenere una qualsiasi religione come la causa dell'odio nel mondo rivela un fraintendimento del vero significato della religione e una cecità nei confronti della natura della psiche umana.
Odio e violenza esistono non a causa delle religioni; odio e violenza esistono perché esiste l'uomo. La loro comparsa è antecedente alla nascita delle religioni. La religione nasce, tra i molti altri motivi, proprio per arginare la violenza e migliorare l'uomo.
Tuttavia, così come l'energia atomica è diventata in poco tempo, nelle mani degli esseri umani, uno strumento di distruzione, il vero spirito della religione viene contaminato dall'odio che l'uomo si porta dentro, trasformando una via di ascesi spirituale in uno strumento di oppressione, violenza e fanatismo.
Dall'Antico testamento al Nuovo Testamento, dalla Bhagavadgita al Corano è possibile trovare atrocità di ogni tipo. Come accennavo in precedenza, chi discredita le religione tende a universalizzare tali passaggi e a renderli esemplificativi dell'intera morale religiosa in questione. Ma non è così.
Comparando i testi sopracitati è possibile constatare come le prescrizioni di vita pratica dettate dal Deuteronomio piuttosto che dalle Lettere di San Paolo, dalle Sure di Maometto o dai versi della Bhagavadgita non possono fare a meno di rispecchiare aspetti contingenti dettati dalla situazione storica del momento.
E' sbagliato rendere propria dell'intero Cristianesimo l'esortazione di San Paolo alle donne affinché siano sottomesse ai mariti; in tutte le culture del passato la donna si è sempre trovata in una condizione di disparità. La frase di San Paolo non rispecchia né più né meno che un antiquato pregiudizio antropologico.
Nel Corano così come nell'Antico Testamento si ritrovano innumerevoli descrizioni di guerre contro gli infedeli, di linciaggi, di odio verso il diverso. Come nel caso di San Paolo, queste descrizioni riflettono soltanto quella che è la natura umana, naturalmente portata a discriminare i membri dell'out-group, le persone che non avvertiamo simili a noi e che fanno parte di gruppi etnici o religiosi differenti. E, sottolineo, riflettono la natura umana, non la natura dell'esperienza religiosa.
E' per questo motivo che i testi sacri richiedono un attento lavoro di esegesi, per epurare il percorso spirituale e la morale tramandati dagli aspetti contingenti, orme inevitabili lasciate dal contesto storico in cui i testi sono stati scritti, ombre proiettate dal lato oscuro dell'anima umana.
Chi si limita al significato letterale di certi passaggi per screditare un intero libro non applica un modo di pensare diverso dai fanatici religiosi che, appunto, si limitano a interpretare letteralmente ogni verso per poi passare all'azione.
Messo da parte questo tipo di pregiudizio, non si può rimanere insensibili di fronte ai versi del Qoelet o di fronte all'elogio dell'amore Erotico e Spirituale del Cantico dei Cantaci; è impossibile non rimanere affascinati dalle narrazioni mitiche presenti nelle Sure del Corano e nell'Antico Testamento, senza cogliere da esse alcun insegnamento spirituale proficuo; non si può lasciare immutati i propri paradigmi di pensiero dopo aver letto i paradossi Taoisti o della mistica Sufi.
Effettuato, tramite un'adeguata esegesi, tale labur limae e raggiunto il nocciolo spirituale dei diversi insegnamenti religiosi, è impossibile non accorgersi del filo d'oro che lega tutte le professioni; un messaggio di pace, fratellanza e amore universale che circonda tutto il pianeta. L'idea di un ordine morale del cosmo che ci lega indissolubilmente al nostro prossimo, la consapevolezza che facendo del male all'altro stiamo, innanzitutto, facendo del male a noi stessi.

Daniele Palmieri

lunedì 2 novembre 2015

L'editoria di qualità: intervista ad Andrea Fagiolari




Spesso mi lamento dello stato dell'editoria in Italia. La cosa che più mi fa rodere il fegato è la mercificazione del libro, ormai ridotto a una merce tra le merci. Complice, in questo processo di reificazione della cultura, è l'editoria stessa, interessata da anni a questa parte principalmente all'aspetto economico.
Non mi riferisco soltanto ai contenuti discutibili dei principali testi pubblicati, ma anche all'estetica stessa dell'oggetto-libro, sempre più ridotto alle logiche dei cartelloni pubblicitari pur di attirare clienti.

Ed è per questo che subito mi è saltata all'occhio una nuova realtà milanese: Fagiolari Bottega Editrice
I titoli proposti e la curata presentazione degli stessi mi hanno fatto ritornare alla vecchia editoria, quella di qualità, nella quale contenuto e presentazione estetica del libro formano un tutt'uno indissolubile, indice della qualità del prodotto culturale.
Vorrei dunque presentarvi, per una volta, un esempio positivo di editoria. Una realtà appena nata ma con molti progetti e molte potenzialità.
E vorrei presentarvi tale realtà attraverso le parole stesse del fondatore della Casa Editrice, Andrea Fagiolari:



1)      Iniziamo dal nome della casa editrice: Fagiolari Bottega Editrice. Il termine “Bottega” è molto importante; richiama alla memoria i piccoli negozi artigianali, quelli a conduzione domestica portati avanti, appunto, da artigiani appassionati dal loro lavoro, ben lontani dagli operai alienati dalle catene di montaggio o dai semplici negozi che vendono merci prodotte in serie. In che senso, dunque, una casa editrice può essere una “Bottega”?

L’ho chiamata Bottega per due motivi. Il primo: qui si lavora come nelle antiche case editrici milanesi. Il modello è il piccolo studio di Leo Longanesi anni ’40-’50: nessun editor, nessun consulente marketing, nessun’altra figura professionale moderna. La mia squadra è composta solo da due grafici e, nel futuro prossimo, dagli scrittori che ne entreranno a far parte. Il secondo riguarda proprio la selezione degli scrittori: qui, non vengono a farmi visita coi manoscritti sotto braccio. Chiedo loro, invece, di farmi leggere un racconto; se penso che la penna sia valida, allora progetto insieme all’autore cosa fargli scrivere, e seguo passo passo la nascita della sua opera. Quello che voglio, è far crescere degli artigiani della penna. In un libro il sapore del fatto in casa è, per me, discriminante tanto quanto per il cibo.

2) Come e quando è nata l’idea di fondare una nuova casa editrice? Quali scopi si prefigge?

Ci lavoro da un paio d’anni, e la mia impressione non è cambiata da allora. Le cause del calo dei lettori, in Italia, sono molte e molto diverse tra loro. Le conosciamo tutti: dalle abitudini familiari al rapporto sempre più difficile tra case editrici, distributori e librai, scopriamo di essere tutti in parte responsabili. E però, se per esempio i lettori tedeschi rappresentano circa l’80% della popolazione, mentre da noi la percentuale scende di anno in anno sotto la soglia del 40, ci dev’essere qualcosa, alla base, che non funziona. E alla base di questa realtà, purtroppo, ci sono gli scrittori e gli editori. Per questo ho deciso di provare, almeno, a far qualcosa di diverso. Qualcosa che riesca a rendere più intimo e forte il rapporto con i lettori.

3) Il fiore all’occhiello della Bottega è senz’altro la collana dei piccoli, grandi classici. 42 opere in formato tascabile e a un prezzo molto economico. Come è nata questa idea?

Da una parte, dovevo costruire la Bottega con gli scrittori; ma, dall’altra, era necessario stringere amicizia con lettori nuovi e giovani. I libricini della Piccola Biblioteca son pensati per gli studenti. Non in termini esclusivi, anzi: molti ordini, fino a questo momento, sono venuti da lettori adulti e anche da lettori forti, che trovano nel catalogo anche una piccola perla come Costantinopoli, di De Amicis, in versione integrale. Tuttavia, la collana nasce per dare la possibilità agli studenti di leggere i grandi classici in un modo nuovo, e soprattutto più accessibile. Il formato A6 ricorda la prima edizione della collana BUR; il peso è quasi impercettibile; ogni opera è ridotta all’osso, così come ce l’hanno lasciata i poeti e i romanzieri, senza apparati critici, senza note, senza presentazioni; non c’è una sola pagina bianca. Il risultato finale, credo sia questo: è più facile avvicinarsi a un Boccaccio, a un Verri, a un Nievo. Perché non fanno paura.

4) Da Leopardi a Marinetti, da Collodi ad Aretino, da Vasari a Salgari. In tutto, una quarantina di autori che hanno fatto la storia della letteratura italiana. Nella vastissima produzione nostrana, cosa l’ha portata a scegliere quegli autori e quei testi?

Ho cercato di inserire da subito, nel catalogo, sia i grandi classici che si studiano a scuola, e sia i piccoli classici che invece sono più trascurati. L’obiettivo, in ogni caso, è di poter offrire a tutti, tra qualche anno, un panorama sempre più ampio e completo della letteratura italiana. Già nel 2016 prevedo di stampare altri venti titoli.

5) In un mondo editoriale interessato soltanto alla mera mercificazione del prodotto-libro, ormai ridotto a una merce di consumo tra le altre, trovo fondamentale ritornare ai classici per riscoprire l’importanza della Letteratura con la L maiuscola. In tutto ciò, credo sia molto importante anche il modo in cui si torna ai classici. Ad esempio, la Sperling ha ripubblicato da qualche mese autori come Tolstoj, Austen, Bronte in una nuova collana targata con il marchio “After” (ennesima fan fiction sbarcata nel mondo dell’editoria). Una mossa editoriale che mi ha fatto accapponare la pelle. Ciò che subito mi ha colpito, invece, della collana dei piccoli classici della Bottega è lo stile essenziale e minimal delle pubblicazioni. Fatto questo lungo preambolo, la mia domanda è: quanto è importante la cura materiale del libro per tornare a un’editoria che non sia basata soltanto sull’immagine e sull’apparenza?

Secondo me è importantissima; non in contrapposizione, ma in virtù del culto dell’immagine. Il problema è tutto estetico. E la risposta la troviamo nella storia del design: quella che bisogna raggiungere, è la coerenza formale con il contenuto. Solo in questo modo si è riconoscibili. In libreria, invece, mi pare che assistiamo a una gara di copertine appariscenti. Le carte e le rilegature scelte non sono quasi mai funzionali allo scopo. Spesso fatico a riconoscere le collane di case editrici anche molto diverse tra loro. Non è un bel segnale. Io ho cercato di rispondere ai criteri di essenzialità e prezzi bassissimi. Credo che i grafici, Luca Fontana e Sara Ubaldini, abbiano fatto un bellissimo lavoro. Lo studio dei colori, uno per ciascun titolo, la scelta di un’impaginazione austera e senza fronzoli, le carte leggere: mi sembra che ogni componente risponda al principio di coerenza formale con il contenuto. Poi, lasciami dire che su questo tema l’ultima parola spetta ai lettori.

6) A questo riguardo, quali sono i propositi della casa editrice per il futuro, soprattutto nei riguardi del tema più spinoso dell’editoria, quello degli autori esordienti?


In parte ti ho già risposto più sopra. In questo momento, sto selezionando gli autori che lavoreranno per il progetto della Bottega Editrice. Sarà qualcosa di assolutamente inedito, che si svilupperà online. Non posso però dire altro: manca ancora qualche mese al lancio, e siamo in fase di costruzione. Di sicuro, ci sarà molto da leggere: saggi, romanzi, libri per bambini, ritratti, racconti. Spero di riuscire a dare spazio anche alla poesia. Ma, ecco, magari ne parleremo più avanti, quando sarà tutto pronto.

Daniele Palmieri