giovedì 24 marzo 2016

Cormac McCarthy: tra natura selvaggia e violenza sacra la vera essenza dell'uomo

Se mi chiedessero chi è il più grande scrittore ancora in vita risponderei senza esitazione: Cormac McCarthy. I suoi libri sono tra i pochi lavori di autori contemporanei che, durante la lettura, mi fanno pensare: questa è Letteratura con la L maiuscola. 
In essi si ritrovano tutte le caratteristiche proprie dei classici del passato: cura stilistica, prosa ricercata, filosofia, una visione generale del mondo sottesa a ogni testo, l'indagine minuziosa dell'animo umano. Ultimo ma non meno importante: "l'impronta" dell'autore, quella caratteristica letteraria difficilmente definibile che ogni grande scrittore è in grado di imprimere nella propria opera, rendendola unica e inimitabile, qualcosa che soltanto la sua mente avrebbe potuto partorire. Quel tipo di marchio che non lascia spazio a mezzi termini: o lo ami o lo odi.
Come accennato in precedenza, all'interno dei libri di Cormac McCarthy prosa, filosofia e storia sono tre elementi inseparabili e strettamente interconnessi. Il suo linguaggio è arcaico ma allo stesso tempo asciutto e asettico, con brusche accelerate nei passaggi che evocano le asperità della natura selvaggia (tramonti, deserti, canyon, tempeste, montagne). Gli stessi personaggi diventano un tutt'uno con la natura e con la storia grazie a una caratteristica che salta subito all'occhio: l'assenza di virgolette o di altri segni di interpunzione atti a separare i dialoghi dal resto del discorso. Una scelta coraggiosa che soltanto uno scrittore di talento può essere in grado di gestire senza causare un'incomprensibile confusione.
In questo mondo impervio, retto da una legge quasi fatalistica come quella dell'universo mitologico greco, i personaggi sono piatti, impassibili, difficilmente "individuabili". Una precisa scelta letteraria e filosofica poiché McCarthy è un autore che non narra attraverso i personaggi ma che parla attraverso archetipi, perciò spesso si ha l'impressione di leggere qualcosa di evanescente, caotico, insensato, proprio come in un sogno/incubo. 
I protagonisti sono pedine in balia del destino che hanno un nome solo per essere distinte le une dalle altre, ciò che conta è la violenta mano invisibile che le muove. Difatti in una delle sue opere più belle, The Road, i due protagonisti non hanno nome, così come tutti i personaggi che incontrano. Sono semplicemente un padre e un figlio che viaggiano in un mondo distrutto da una guerra nucleare. Un padre e un figlio che sono, appunto, degli archetipi che rappresentano l'intera umanità e non "quel padre" e "quel figlio".
Proprio Uomo e Natura sono i due protagonisti sempre al centro della narrazione mcCarthyana. I personaggi si trovano spesso in balia di un mondo in rovina, di una Natura selvaggia che dà lo stesso effetto dei quadri del Romanticismo: terrorizza ma che allo stesso tempo affascina con il suo caos e la sua insensatezza. Filo conduttore che lega Uomo e Natura è l'intrinseca quanto insensata Violenza, con la V maiuscola poiché anch'essa viene rappresentata come un archetipo, forse il più importante insieme al Caos, pilastri metafisici sui quali si regge l'intero ordine cosmico.
Essa raggiunge la sua apoteosi in Meridiano di sangue, un testo che si apre con un'emblematica ed enigmatica citazione del mistico Jakob Bohme e che narra delle scorribande di un gruppo di giustizieri guidati dalla carismatica figura de "il Giudice Holden", un vero agente del caos che conosce ogni segreto della Natura e che, proprio per questo, si comporta come lei, distruggendo senza motivo ogni cosa che incontra sul proprio cammino.
In questo scenario apocalittico resta comunque spazio per la vera essenza dell'uomo, che non consiste nella violenza ma nella Speranza, che McCarthy rappresenta in Non è un paese per vecchi e in The Road con una metafora molto evocativa: il Fuoco.
Nel secondo libro essa viene citata costantemente. "Noi siamo i buoni perché portiamo il fuoco" ripete in più occasione il Padre al Figlio durante il loro viaggio attraverso il mondo distrutto, quasi fosse un mantra a cui aggrapparsi per riuscire ad andare avanti. In Non è un paese per vecchi è una metafora che viene evocata nel misterioso finale in cui lo sceriffo, protagonista del romanzo disilluso dalle violenze perpetrate dall'uomo, racconta alla moglie un sogno in cui suo padre lo conduceva attraverso la tenebre per accendere un fuoco "in mezzo a tutto quel buio e tutto quel freddo".
Il fuoco richiama l'ambiente familiare e sicuro del focolare domestico e rappresenta la luce interiore, la scintilla divina che permette all'uomo di sopravvivere alla natura selvaggia dentro e fuori di lui, poiché il Buio non potrà mai spegnere la Luce e, per quanto oscure possano essere le tenebre, anche solo una flebile fiaccola permette di rischiararle.


Daniele Palmieri

p.s.

La grande domanda è: perché McCarthy non ha mai vinto il premio Nobel per la letteratura?

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