lunedì 23 maggio 2016

Adam Smith e la nascita della disuguaglianza sociale

Adam Smith è conosciuto soprattutto per essere stato il fondatore della moderna scienza economica, con la sua opera più conosciuta e commentata: La ricchezza delle nazioni.
In pochi conoscono la sua attività più prettamente filosofica, in linea con la tradizione illuministica scozzese che ha in Hume uno dei suoi capisaldi. In particolare, è poco letta e commentata (almeno in Italia) un'opera altrettanto innovativa e attuale per la discussione filosofica contemporanea, ossia la Teoria dei sentimenti morali
Ne la Teoria dei sentimenti morali, Adam Smith propone una teoria prettamente descrittiva e naturalistica della nascita della morale. La sua è una teoria aliena da qualsiasi influenza teologica o normativa, poiché il suo scopo non è quello di stabilire cosa gli uomini devono fare o non fare, bensì descrivere da osservatore esterno, tramite esempi tratti dall'esperienza quotidiana, come nasce spontaneamente la morale e qual è il suo fondamento naturale.
Tra le tante intuizioni originali, particolarmente interessante è la sua teoria sulla nascita della disuguaglianza sociale e di come lo status quo venga giustificato dagli stessi "strati inferiori" della società. 
Per comprendere la concezione di Smith sulla disuguaglianza sociale occorre prima esporre la sua teoria generale sulla nascita della morale.
Come nasce, dunque, la morale?
Nella sua trattazione, Smith si inserisce nello storico filone del sentimentalismo morale, posizione filosofica secondo cui la morale affonda le sue radici nei sentimenti e nelle emozioni umane.
In particolare, secondo la concezione di Smith due sono i sentimenti principali sui quali si fonda la morale umana: il sentimento di approvazione e quello di disapprovazione. 
Questi sentimenti sorgono quando siamo inseriti in un contesto sociale e possiamo vivere e osservare le dinamiche interpersonali che si instaurano tra gli uomini. Da un lato, essi ci vengono "impartiti" con l'educazione che riceviamo dai familiari e dalle persone a noi vicine. Se compiamo un'azione che i nostri familiari reputano "scorretta", otteniamo la loro disapprovazione, che suscita in noi un'emozione negativa, e a lungo andare comprendiamo che quell'azione non è da fare non solo perché suscita disapprovazione ma perché, appunto, "scorretta". In secondo luogo, il senso morale nasce spontaneamente nel momento stesso in cui osserviamo le dinamiche che avvengono attorno a noi. 
Se siamo testimoni di una violenza immotivata, percepiamo un'emozione negativa e automaticamente bolliamo l'azione commessa nei confronti della vittima come "sbagliata", perché mina l'integrità personale. 
Tuttavia, perché sorge questo sentimento negativo? In fin dei conti, non siamo noi la vittima dell'azione.
Secondo Smith, ciò avviene perché gli umani sono dotati di una facoltà peculiare, la "simpatia". Non bisogna confondere questo termine con l'accezione usata comunemente; con "simpatia" si intende, in questo caso, la capacità di immedesimarsi nella prospettiva altrui per provare ciò che l'altro sta vivendo come se fossimo noi a viverlo. 
In altri termini, nel momento in cui vediamo una persona vittima di violenza, proviamo un'emozione negativa poiché ci immedesimiamo in quella persona e immaginiamo cosa proveremmo se ci trovassimo nella sua posizione. Proviamo dunque un'emozione negativa e, di conseguenza, un sentimento di repulsione nei confronti della violenza, che diventa un'azione moralmente scorretta.
Questo sentimento simpatetico è una connessione invisibile che lega tutti gli uomini, tanto nelle disgrazie quanto nella felicità. Condividiamo con gli altri sia i dolori sia le gioie, e questa condivisione è allo stesso tempo fonte di piacere per la persona che prova dolore o per quella che gioisce. Nel primo caso, infatti, sentiamo di avere un sostegno su cui contare ed è come se il nostro dolore venisse "diluito"; nel secondo caso perché la gioia condivisa è come se si moltiplicasse.
Date queste premesse, è possibile esporre la teoria di Smith sulla nascita della disuguaglianza sociale.
Tutto ha inizio da due fattori: l'ambizione alla felicità posseduta da ogni uomo e la naturale propensione a condividere la gioia e il successo poiché, come appena detto, una gioia condivisa è molto più appagante di una felicità tenuta nascosta.
Cosa si intende comunemente per "felicità"? Nell'accezione volgare, certamente quella più diffusa, la felicità è spesso associata a uno stato di potere e ricchezza, che rende l'uomo libero (apparentemente) da qualsiasi vincolo e che lo emancipa dalla schiavitù del lavoro e della fatica.
Questa condizione utopica e idealizzata è spesso lo stato a cui tutti tendono ma, secondo Smith, non solo per le ricchezze in sé. Nessun uomo accumulerebbe un'ingente somma di denaro senza trovare il modo per mostrare agli altri la sua ricchezza. Basti pensare ai miliardari; quanti di questi vestono abiti di sottomarche, guidano utilitarie da poco prezzo, vivono in appartamenti da pochi metri quadri? Nessuno, poiché ciò che contraddistingue il miliardario è l'eccesso. I vestiti di marca, le automobili più costose, le ville smoderatamente grandi, non sono semplicemente dei beni che il ricco acquista perché gli piacciono, ma sono soprattutto dei modi che questi ha per ostentare la sua ricchezza, in modo che gli altri condividano con lui la sua felicità. Una condivisione che, però, non avviene per motivi altruistici, ma per affermare il proprio rango superiore.
Tale affermazione che può avvenire proprio perché le persone comuni provano rispetto e venerazione per la sua ricchezza e la sua condizione di vita, poiché esse personificano l'utopia alla quale tendono anche loro.
In questo modo, il rango, i privilegi e il potere dei dominanti vengono naturalmente giustificati dai dominati i quali, benché oppressi, ammirano la condizione dei potenti poiché ne condividono simpateticamente la gioia, ne riconoscono la legittimità e, anzi, aspirano a raggiungere la medesima condizione. Tale aspirazione, se non contrastata, blocca sul nascere ogni movimento di sovversione dello status quo, poiché il potente diviene un ideale utopico intoccabile e il suo dominio, anche se scorretto, opprimente o illiberale, viene giustificato dalla nostra istintiva approvazione. Come sostiene Smith con un'immagine molto evocativa, questa propensione naturale porta il suddito a considerare il sorriso del sovrano come paga più che sufficiente a ogni servizio che compie nei suoi confronti.
Come non rivedere, in queste parole, il volto dei parvenus alla Donald Trump che con un solo sorriso riescono a radunare folle di fedeli pronti ad acclamare ogni loro affermazione?
Con il tempo, l'arrampicata sociale, generata dalla naturale ambizione al potere e alla felicità, porta delle persone a raggiungere "i piani alti" della società e altre persone a rimanere con i piedi a terra. I potenti li guardano dall'alto ostentando le loro ricchezze e, dal canto loro, i dominati alzano lo sguardo e li ammirano come divinità, accecati dal loro potere. Proprio questa venerazione legittima il potere di chi ha scalato la vetta dell'ambizione, anche se con sporchi mezzi, e sopisce sul nascere ogni moto di sovversione che spinga a instaurare l'uguaglianza sociale. 
Ai temi di Smith come ai giorni nostri (e come è sempre stato nella storia umana), gli oppressi lucidano lo scettro del loro oppressore, aspirando al suo stesso potere, senza accorgersi che quel potere già lo posseggono visto che sono stati loro stessi a porre il sovrano sul trono con la loro ammirazione. Per liberarsene basterebbe distogliere lo sguardo.


Adam Smith - Teoria dei sentimenti morali
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Daniele Palmieri

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