martedì 27 settembre 2016

Discorso sulla felicità (Daniele Palmieri)

"Discorso sulla felicità" è una meditazione semplice e diretta che ha come tema la ricerca di una felicità autentica, con la consapevolezza che il più grande esercizio per raggiungere la felicità consiste nell'aprire gli occhi per accorgerci che siamo già felici e che, spesso, siamo soltanto troppo ciechi per accorgercene.

Il breve testo è disponibile, gratuitamente, su Amazon e in tutti gli altri store online in formato ebook, ed è la trascrizione di una conferenza che ho tenuto il 10 settembre 2016 presso la Libreria Esoterica di Milano.
Qui il link al download.

Daniele Palmieri

venerdì 23 settembre 2016

Tolstoj: La morte di Ivan Il'ic. Il morire come rinascita

La morte di Ivan Il'ic, uno dei racconti lunghi più noti di Tolstoj, ha una trama apparentemente semplice. 
Ivan Il'ic è un uomo per bene, che ha sempre avuto una vita impeccabile.
La sua dedizione gli ha permesso di raggiungere le posizioni gerarchiche più elevate all'interno della complessa burocrazia statale russa e sembra che la vita gli abbia dato tutto ciò che un uomo (o, perlomeno, un uomo russo del 1800) possa desiderare: una moglie, una bella casa, un dignitoso impiego statale e uno stile di vita agiato, tra i salotti della vita borghese dell'alta società.
Un giorno, tuttavia, Ivan Il'ic contrae una malattia cronica e tutto il castello che si era costruito fino ad allora crolla; il misterioso morbo lo mangia dall'interno e lentamente ma inesorabilmente lo conduce alla morte.
Come accennato in precedenza, La morte di Ivan Il'ic ha una trama lineare, senza intrecci complessi e senza alcun colpo di scena. Tuttavia, proprio le trame semplici sono le più difficili da narrare; l'autore, infatti, deve essere abile ad imprimere il proprio marchio sul racconto rendendolo così unico e inimitabile.
Il marchio di un grande autore come Tolstoj è il profondo messaggio filosofico che egli è in grado di inserire tra le righe dei racconti, e La morte di Ivan Il'ic non fa eccezione.
La trama, dunque, passa in secondo piano; ciò che conta non è la storia in sé, ma il modo in cui essa è narrata e il messaggio che vuole trasmettere.
Quest'ultimo risiede nella diversa prospettiva che la morte imminente apre nella mente di Ivan Il'ic e nel travaglio interiore che lo accompagnerà per tutta la seconda metà del racconto.
Il punto di svolta è proprio la presa di coscienza, da parte di Ivan, dell'ineluttabilità del suo destino. La malattia, insinuatasi tra le sue certezze come un lieve crepa, diventa un baratro quando essa si trasforma nella consapevolezza di una morte imminente. Tuttavia, più che la morte in sé, a tormentarlo è una domanda sollevatasi da questo abisso oscuro: posso essere soddisfatto della vita che ho vissuto?
A una prima lettura superficiale si potrebbe pensare che Ivan Il'ic non abbia nulla di cui lamentarsi; in fin dei conti, ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, ha avuto lavori e stipendi dignitosi, si è sposato e ha messo su famiglia. Eppure, voltandosi indietro e tirando le somme della propria esistenza, Ivan Il'ic si accorge che non riesce a essere soddisfatto di come ha vissuto. La morte ha sfilato un velo rivelando una verità che egli stesso aveva sempre nascosto: tutta la sua vita non è stata che una grande menzogna. Egli non è mai stato padrone della sua esistenza, poiché ha sempre vissuto assecondando gli stereotipi della società. Ivan Il'ic non ha scalato la gerarchia della burocrazia statale perché pensava che uno stipendio elevato e un posto prestigioso potessero renderlo felice, ma solamente perché la società pensa che i soldi e un posto in vista facciano la felicità. Egli non ha preso moglie perché amava quella donna, né perché fosse intimamente convinto dell'importanza del matrimonio, ma soltanto perché la società vuole che raggiunta una certa età si prenda moglie e si metta su famiglia. Egli non frequentava i salotti dell'alta borghesia perché si dilettava all'interno di quell'ambiente raffinato, ma perché secondo la società le "persone dabbene" devono frequentare quei luoghi. In poche parole, Ivan Il'ic ha sempre posto la propria vita nelle mani della società; lui non ha mai vissuto, poiché la società ha vissuto al posto suo. Di conseguenza, egli ha sprecato la sua vita.
La morte diventa un'amara rivelazione e lo stesso Ivan Il'ic diventa un'incarnazione di tale rivelazione. A testimoniarlo, l'ostracismo con cui lo trattano la moglie, gli "amici", il dottore e, in generale, tutte le persone a lui attorno, che condividevano la medesima finzione sociale e che, trovandosi di fronte a un evento che mette in mostra la fragilità di tutta la menzogna, tentano in ogni modo di negare l'evidenza. La parola "morte" diventa tabù, nessuno osa pronunciarla; fino all'ultimo si nega l'ineluttabilità della malattia cronica e tutti, in primis la moglie, cercano di convincere Ivan che quel male passerà presto. Allo stesso tempo, però, tutti iniziano a evitarlo, quasi corressero il rischio di essere contagiati; sanno che la morte è in grado di far crollare tutto il loro castello di carte con un solo soffio e proprio per questo la negano, continuando a vivere nella menzogna e tenendola distante.
Tuttavia, è proprio in questo lento morire che Ivan scopre il vivere autentico, rappresentato dalla figura di Gerasim, un ragazzo di origine contadine che lo accudisce durante la malattia.
Benché Gerasim sia povero, abbia un lavoro umile e non possieda tutti i privilegi di Ivan, egli è sempre allegro, positivo e il suo sorriso è sempre genuino. Non c'è nulla di "falso" nella sua semplice vita e nel suo atteggiamento, e questo perché, benché egli non sia ricco materialmente, ha però un bene molto più prezioso: la libertà interiore. Non vive seguendo le etichette della società, di conseguenza non deve trascinarsi dietro le pesanti catene dell'apparenza; il suo animo è libero di sollevarsi.
Non a caso Gerasim è l'unico ad accettare la verità della morte e a chiamarla per nome, anche e soprattutto di fronte al diretto interessato; non a caso, è soltanto nell'autenticità di quel rapporto che Ivan riesce a trovar sollievo, anche se momentaneo, alle sue pene; ed è forse grazie a questo barlume di verità, anche se colto soltanto alla fine della vita, che sul letto di morte egli è in grado di vedere la luce, pochi istanti dopo l'ultimo respiro.

Lev Tolstoj - La morte di Ivan Il'ic

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Daniele Palmieri

sabato 17 settembre 2016

Julius Evola: Meditazioni delle vette. La montagna come luogo spirituale

Ne Il cammino del cinabro, un'autobiografia spirituale, Julius Evola scrisse, a proposito della chiusura della sua rivista, La Torre, a causa delle pressioni del regime: "Io ne ebbi abbastanza, smisi e me ne andai in alta montagna" (a dimostrazione di come il pensatore di Destra fosse inviso anche dallo stesso fascismo, data la sua grande libertà di pensiero).
Questa mossa ha grandi analogie con l'azione dell'anarca descritto da Ernst Junger ne Il trattato del Ribelle; di fronte a una realtà troppo stretta rispetto alla propria levatura, l'unica soluzione per l'uomo realmente libero è rifugiarsi tra le ombre del sottobosco, per ritrovare quell'assoluta libertà di cui egli necessita.
Meditazioni delle vette, edito da Edizioni Mediterranee, è una raccolta di articoli e brevi saggi che Julius Evola scrisse a seguito di questo auto-esilio e testimoniano una ricerca spirituale del tutto simile a quella del Ribelle jungeriano.
Gli articoli affrontano temi molto diversi tra loro, ma sono tutti legati da un unico filo conduttore: la montagna come grande archetipo dell'ascesa spirituale dell'uomo libero. Ogni singolo testo è in grado di dare una differente sfumatura di questo concetto, esattamente come le decine di vedute diverse del Mont Saint-Victoire dipinte da Cézanne sono in grado di svelare all'osservatore una prospettiva sempre nuova del medesimo oggetto.
Il primo nucleo tematico è quello del rapporto che si instaura tra uomo e montagna mediante la pratica dell'alpinismo.
Quest'ultimo non deve essere considerato uno sport fine a se stesso. La scalata compiuta con il mero scopo di stabilire un nuovo record profana l'aspetto sacro e iniziatico che l'ascesa verso la vetta rappresenta.
La montagna, identificata in tutti i miti e in tutte le religioni come la sede degli déi, rappresenta metaforicamente il luogo sacro di congiunzione tra cielo e terra, in grado di coniare in sé sia le forze primordiali e telluriche delle viscere del terreno sia quelle pure ed elevate del cielo lontano. Essa è l'espressione dell'energia atavica che ancora scorre in quella natura vergine che non può essere domata né dalle macchine né dall'automatismo della vita civilizzata.
L'alpinista che si prepara ad affrontare le asperità della scalata è come un iniziato che si appresta a intraprendere un percorso spirituale che lo porterà ad ascendere al cielo. 
La cima rappresenta dunque la destinazione non soltanto fisica, ma soprattutto metafisica, dalla quale l'alpinista è in grado di assumere una nuova prospettiva delle cose, uno sguardo dall'alto che gli permette di ergersi al di sopra del mondo terreno e di contemplare l'infinito, similmente al Viandante sul mare di nebbia di Friedrich. Un infinito che non è soltanto quello esteriore, del paesaggio dinnanzi a lui, ma soprattutto quello interiore, che alberga in quelle anime in grado di raggiungere l'altezza e di dominarla con un solo sguardo.
E' una condizione estatica che però permette all'alpinista di non perdere il contatto con la realtà, bensì di provare l'intensa sensazione del "viver di più". Come scrive Evola: "In questi apici, come calore che si trasfigura in luce, la vita, per così dire, si libera da se stessa, non nel senso di una cessazione dell'individualità e di una specie di mistico naufragio, ma nel senso di un'affermazione trascendente di essa, nella quale l'angoscia, l'incessante tendere, bramare ed agitarsi, cercar fedi, appoggi e scopi degli uomini dà luogo ad uno stato di calma dominatrice. Nella vita, non fuori di essa, vive qualcosa di più della vita".
Questo risultato è il coronamento di un percorso le cui fatiche mettono a dura prova sia la resistenza del corpo sia quella dello spirito; solo con se stesso, l'alpinista non può che trarre da se stesso la volontà per andare avanti, la forza per superare i propri limiti fisiologici e psicologici, l'audacia e il coraggio per superare i crepacci e le ripide salite, il dominio del corpo, l'equilibrio dei movimenti e la sincronia con il respiro; e proprio in questa duplice tempra a cui egli è sottoposto risiede l'importanza della scalata.
Essa permette di superare la spaccatura che vi è tra mondo vita contemplativa e vita attiva. Usando le parole di Evola: "L'una è l'astrattismo della nostra cultura. L'altra, è l'esaltazione priva di luce. Da una parte, vediamo persone le quali credono che spirito sia la semplice erudizione da biblioteca o aula universitaria, i giuochi intellettuali della filosofia, l'estetismo letterario o misticheggiante. Dall'altra, vediamo nuove generazioni che dello sport hanno fatto una vera e propria religione, e che non vedono nient'altro oltre l'ebbrezza di un allenamento, di una competizione e di una conquista fisica: facendo dunque dello sport un fine e un idolo, anziché un mezzo".
La scalata è l'ideale punto di incontro tra i due estremi precedenti, poiché in essa la contemplazione può essere raggiunta soltanto mediante l'intenso sforzo fisico che conduce alla vetta e, allo stesso tempo, quest'ultimo è in grado di portare alla luce le forze interiori necessarie per coronare l'ascesi.
Quasi a margine, ma non meno importante, vi è la lungimirante critica di Evola al turismo di massa, che profana i luoghi vergini della natura contaminandoli con le agiatezze, le macchine, la frivolezza della vita borghese e che finisce per addomesticarli, sottraendogli tutto il loro fascino e la loro valenza spirituale. Esattamente la stessa impressione che ho provato quest'anno visitando il parco naturale di Plitvice, in Croazia, dove la natura selvaggia è stata addomesticata e messa in vetrina, trasformata in un immobile quadro classicista, privo di qualsiasi potenza espressiva.
Vi è, infine, la descrizione pura delle scalate compiute da Evola, in cui il pensatore italiano è in grado di sfoggiare grandi doti letterarie, oltre a quelle filosofiche. Ed è soltanto con una delle sue sublimi descrizioni della potenza della natura che il presente articolo può concludersi in maniera degna:
"L'esperienza notturna del lago di Resia. [...] L'idea è stata: andiamo sul lago. E' notte alta. Immaginate una lastra immensa di cristallo nero, della levigatezza esatta di uno specchio che dura chilometri: il lago gelato. I monti nevosi dei due fianchi della valle e il cielo inverosimilmente costellato si riflettono in questa lastra con una vividezza magnetica, per cui vi trovate fra un doppio miraggio, fra una doppia trasparenza. Pensate che cosa sia andar avanti senza pattini verso il centro, fra il vento del Nord, nell'equilibrio fisico e spirituale di una lucida ebbrezza in cui l'alcool, natura, ed esaltazione interiore concorrono - concepire questo forse è possibile. Non è però possibile concepire, per chi non l'ha provato, che cosa è in queste condizioni l'esperienza della frattura dei ghiacci subacquei. La notte, per l'ulteriore dislivello della temperatura, accade che gli strati profondi del ghiaccio in contatto del lago si spezzano. Si produce allora uno scroscio ed un boato che si ripercuote paurosamente attraverso la valle. [...] sentire ad un tratto sotto di sé lo scroscio che diviene un boato immenso che tutta la montagna ripete, è quasi sentir la voce stessa della terra, è aspettarsi un abisso che si spalanca - è qualcosa che sommuove il sangue fino all'intimo, come solo il terremoto lo può: è risveglio di una sensazione primordiale, meravigliosa e paurosa, dormente in chi sa quali arcaici strati della nostra entità più profonda".

Julius Evola - Meditazioni delle vette, Edizioni Mediterranee

Ho parlato di Juliues Evola anche in:



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Daniele Palmieri

giovedì 15 settembre 2016

L'arte della virtù secondo Benjamin Franklin

Benjamin Franklin è stato, senza ombra di dubbio, una delle figure più complesse e poliedriche nel panorama del pensiero americano. I suoi interessi spaziavano dalla filosofia alla scienza alla massoneria fino, ovviamente, alla politica.
Uno dei suoi testi più noti e letti, soprattutto negli Stati Uniti, è la sua Autobiografia, rimasta incompiuta, così come un suo grande progetto sul quale aveva lavorato per oltre vent'anni: la stesura di un libro, l'Arte della virtù, che avrebbe dovuto contenere una serie di precetti morali laici che permettessero all'uomo di perfezionare la propria interiorità e, di conseguenza, le proprie azioni.
Di questo progetto ci è giunto soltanto il riflesso, conservato in alcuni passi della Autobiografia che La vita felice, casa editrice milanese, ha raccolto in una breve pubblicazione: L'Arte della virtù, per l'appunto.
Dell'idea originaria, Benjamin Franklin riporta l'impalcatura principale e con pochi e semplici concetti è in grado di trasmettere i suoi vent'anni di ricerca.
Come egli sottolinea nella prima parte del testo, molte sono state le virtù identificate da religioni e filosofie di ogni parte del mondo, ma di esse Benjamin Franklin ne individui tredici che, a suo dire, possono permettere all'uomo, a prescindere dalla sua confessione religiosa, di raggiungere la perfezione morale.
Riportando il "breviario" di Franklin, queste tredici virtù sono:

1) Temperanza (Non mangiare fino a stordirti. Non bere fino all'ebbrezza).
2) Silenzio (Parla solo quando può essere di vantaggio agli altri o a te. Evita di trastullarti nelle chiacchiere).
3) Ordine (Fa sì che ogni tua cosa abbia un posto proprio. Fa sì che ogni parte delle tue attività abbia un suo tempo).
4) Decisione (Risolviti a fare ciò che devi. Fai immancabilmente ciò che hai deciso di fare).
5) Frugalità (Fai spese solo per il bene del prossimo o di te stesso; ovvero non sprecare niente).
6) Operosità (Non perdere tempo. Sii sempre impegnato in qualche cosa di utile. Elimina tutte le azioni inutili).
7) Sincerità (Non rincorrere a inganni che possono far male. Abbi pensieri innocenti e retti e, quando parli, parla secondo questi pensieri).
8) Giustizia (Non danneggiare nessuno, facendo offese od omettendo i benefici che sono il tuo dovere).
9) Moderazione (Evita gli estremi. Evita di irritarti per offese quando pensi che siano meritati).
10) Pulizia (Non tollerare la sporcizia nel corpo, negli abiti o nell'abitazione).
11) Tranquillità (Non irritarti per inezie o per incidenti banali o inevitabili).
12) Castità (Fai raramente sesso, se non per la salute o per procreare; mai per stupidità, debolezza o danno).
13) Umiltà (Imita Gesù e Socrate).

L'ultima virtù riassume in sé lo spirito del breviario di Franklin, che sembra fondere ottimamente l'etica protestante alle virtù della Grecia Antica. 
In generale, il breve libretto risulta essere una lettura godibile che, senza troppi fronzoli, invoglia il lettore a mettere alla prova se stesso nell'esercizio di tali virtù (anche se molti, me compreso, sarebbero portati a ridurle a dodici, togliendone una che sembra essere più d'intralcio che d'aiuto...).

L'arte della virtù - Benjamin Franklin, edito da La vita felice

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Daniele Palmieri

domenica 11 settembre 2016

Focault e l'ermeneutica del sé

La tradizione filosofica occidentale ha sempre dato molta importanza al concetto di "cura di sé". A partire dall'antichità classica, passando per il medio evo fino ai giorni nostri, è ricorrente il tema della presa di coscienza del proprio io e del compito, da parte del filosofo, di perfezionarlo.
Tuttavia, nel corso dei secoli le tecniche di cura del sé hanno assunto forme differenti, sia con il variare del contesto sociale, sia con l'introduzione di nuove ideologie e con diverse concezioni di ciò che può chiamarsi "Io".
Nelle due conferenze raccolte in Sull'origine dell'ermeneutica del sé, edito dalla casa editrice Cronopio, Michel Focault tenta di ricostruire una breve genealogia di tali pratiche, per comprendere come siano nate, come e perché si siano evolute e quale sia la loro importanza per l'uomo contemporaneo.
Come ogni grande concetto filosofico, anche l'idea della cura di sé nasce nella Grecia Antica, in particolare con le pratiche introdotte dalle scuole di vita ellenistiche. Riprendendo la concezione della filosofia antica delineata da Hadot, anche Focault sostiene che per i pensatori antichi la filosofia era anzitutto una materia pratica, il cui compito era quello di consentire al filosofo di raggiungere la felicità, tramite il perfezionamento di sé. Questo perfezionamento poteva avvenire attraverso l'esercizio di determinate pratiche psico-fisiche, che ponevano al centro del lavoro l'io del filosofo, tra cui la pratica della confessione, il filo conduttore dell'analisi focaultiana.
Come sottolinea Focault, però, occorre fare molta attenzione e non confondere questo "io" con la concezione moderna che abbiamo del soggetto. L'io del filosofo non coincideva con la sua personalità né doveva essere sviluppato secondo caratteristiche "soggettive". Il vero "Io" veniva realizzato e perfezionato quando esso si avvicinava all'ideal-tipo filosofico proposto dalla scuola a cui l'aspirante sophos aveva deciso di aderire. Questo concetto è ben esplicitato in alcuni passaggi del De Ira di Seneca e nella pratica, da lui descritta, della confessione dei propri difetti che il filosofo compiva, a se stesso, ogni sera.
I vizi che il filosofo latino si attribuisce vengono delineati non come aspetti intrinsechi della sua personalità, bensì come malattie da estirpare per raggiungere l'ideale del saggio stoico. Per fare un esempio pratico, Seneca si definiva "goloso" o "pigro" non perché si considerava la golosità e la pigrizia tratti distintivi del suo carattere, bensì come se fosse affetto da vere e proprie malattie, le quali non fanno parte dell'io ma sono, piuttosto, dei corpi estranei.
"L'io" di cui parla Seneca è un "io" astratto, quasi impersonale, non certo l'io "individuo", giacché il concetto moderno di "individuo" era alieno alla mentalità greco-latina. Compito di questo Io è di acquisire determinate virtù ed estirpare i vizi, dove vizio e virtù, come già accennato, non sono aspetti intrinsechi del proprio carattere ma delle qualità impersonali che si possono acquisire mediante l'esercizio (nel caso delle virtù) o dai quali si può venire infettati (nel caso del vizio).
Proprio questa forma di confessione dei propri difetti verrà ripresa dal cristianesimo, che ne muterà però il significato sulla base della diversa concezione dell'io.
Con il cristianesimo, il vizio e il peccato diventano delle qualità intrinseche dell'anima umana, e non delle "semplici" infezioni che essa può contrarre. L'uomo è marcio dentro fin dal peccato originario e questa macchia nera è tramandata generazione dopo generazione. I sette vizi capitali diventano dei tratti distintivi del singolo carattere e comincia così a farsi strada una nuova concezione dell'individuo e dell'Io. L'Io non è più qualcosa di oggettivo e impersonale, bensì un "Io" individuale, con determinati tratti caratteriali, viziosi o virtuosi, che distinguono un uomo dall'altro e che non sono più espressione di qualità impersonali che il soggetto acquisisce.
La confessione, da questa prospettiva, non è più un colloquio che l'Io del soggetto intraprende con se stesso per capire come migliorarsi, ma diviene uno strumento di potere nel momento in cui essa diviene espressione di un senso di colpa che deve essere confessato necessariamente a un'autorità, in questo caso l'autorità religiosa. Senso di colpa che verrà sfruttato dalle cariche religiose  per ottenere il dominio delle anime e sottrargli la possibilità di migliorarsi e dominarsi da sole poiché, secondo la dottrina cattolica, vi è necessariamente bisogno di un intermediario per potersi lavare dai propri peccati ed è chiaro che, nel momento in cui la persona non può trarre da se stessa la forza per migliorarsi, perde gran parte della propria autonomia e, soprattutto, della propria libertà.
Vi è però un aspetto positivo nell'evoluzione della concezione dell'Io; difatti, è proprio la scoperta medievale di un'individualità concreta, che distingue un'anima dall'altra e gli conferisce una propria personalità, ad aprire la strada alla concezione più moderna di "individuo". Un passaggio necessario per arrivare all'ultima fase dell'evoluzione dell'ermeneutica del sé, quella della psicoanalisi novecentesca.
Lo psicologo prende il posto del confessore, ma la sua ermeneutica dell'anima dell'individuo non ha più il medesimo tono "inquisitorio"; il male da curare che colpisce la persona proviene ancora dall'interno della sua psiche, ma problemi psicologici come la nevrosi prendono il posto dei vizi e del peccato; la confessione si trasforma nella seduta psicologica, in cui non vi è l'ammissione di una colpa da purificare ma la descrizione del problema da risolvere.
Tuttavia, anche in questo caso il soggetto perde parte della propria libertà, poiché lo psicologo prende in carica il compito di curare il sé dell'individuo.
A questo punto, ciò che Focault propone è il recupero dello spirito della filosofia antica, per restituire all'individuo la possibilità di poter scoprire, scandagliare e curare il proprio "Io" senza bisogno di intermediari. Nel momento in cui affidiamo al prossimo tale compito, infatti, stiamo rinunciando a una parte fondamentale della nostra libertà.

Focault, Sull'origine dell'ermeneutica del sé, Cronopio edizioni

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Daniele Palmieri