venerdì 28 ottobre 2016

Nietzsche e l'agóne omerico, ovvero: l'eterna lotta per esistere

"Lo stato dei Greci. L'agóne omerico" è una raccolta, edita dalla Ar edizioni, di due brevi scritti che facevano parti un testo, Cinque prefazioni a cinque libri non scritti, che Freidrich Nietzsche aveva regalato ai coniugi Wagner nel 1873.
Pur essendo scritti del periodo giovanile, rivestono una grande importanza nella storia del pensiero dell'autore; sia perché in essi già si ritrovano, in potenza, le grandi idee che svilupperà negli anni a venire, sia perché proprio questi testi fanno da preludio alla nascita de La nascita della tragedia. Possono dunque essere definiti come il crepuscolo dei disvalori occidentali e l'alba della nascente epoca nichilista che Friedrich Nietzsche inaugurerà con la sua filosofia del martello.
Come già anticipato, Lo stato dei Greci e L'agóne omerico contengono in germe i principali temi che svilupperà, con la profondità di un abisso, nella sua produzione successiva.
La filosofia nicciana è sempre profondamente polemica e distruttrice, e anche questi testi sono inaugurati da una critica radicale ai concetti di "diritto al lavoro" e di "dignità del lavoro" dell'epoca a lui contemporanea. Per mostrare l'intrinseca contraddizione di questi ideali astratti e fumosi, Nietzsche oppone la concretezza dello spirito classico della Grecia arcaica.
Per l'uomo greco è quantomai assurdo conciliare la parola "lavoro" con le parole "diritto" e "dignità". Il lavoro, infatti, altro non è che espressione della schiavitù dell'uomo il quale, al contrario degli dèi che vivono sereni e beati, è costretto a guadagnarsi l'esistenza arando i campi, spezzandosi la schiena, lottando ogni giorno per sopravvivere; in altri termini, a vivere una vita tutt'altro che dignitosa: una vita da schiavo.
Il lavoro è l'espressione più profonda dello stato di schiavitù umana; "Senza ricorrere a siffatte allucinazioni concettuali, i greci affermano con spietata chiarezza che il lavoro è una vergogna - mentre una saggezza ovunque diffusa e rigogliosa, pur ascosa e taciturna, aggiunge che la stessa cosa-uomo è un nulla vergognoso perché l'esistere, in sé, non possiede alcun valore" scrive Nietzsche. 
Chi parla di "dignità del lavoro" e di "diritto al lavoro" o è uno stolto o un truffatore che pensa ai propri interessi, che ha bisogno di manovalanza da sfruttare proprio per poter vivere la vita ideale degli antichi greci, quella libera dalla schiavitù del lavoro. Chi parla di dignità intrinseca sta rivestendo di un manto illusorio un'esistenza che, al contrario, sembra avere tutti i caratteri contrari alla dignità; il venire al mondo è una condanna alla sofferenza, non vi è nulla di dignitoso in tutto ciò e di questo i greci erano ben consapevoli.
L'età moderna non fa altro che gettare fumo negli occhi alle persone parlandogli di diritti e dignità, le sta ingannando a perpetrare la propria esistenza in maniera mediocre, contribuendo così a mantenerle schiave della più alta forma di schiavitù, il lavoro, facendo scattare per di più un meccanismo perverso: quello di farglielo agognare e di farle vergognare nel caso in cui non possiedono un lavoro - cosa che per i greci più nobili era invece un grande vanto.
In risposta a questo mondo piatto, mediocre e illusorio Nietzsche controbatte con l'antico agóne omerico, la potenza delle forze telluriche che animava l'uomo nobile, il Genio, in grado di smarcarsi dalla folla indistinta proprio grazie alla sua spinta irrefrenabile al conflitto, al dominio, alla forza, a quello che ne l'Anticristo  Nietzsche definirà come il "grande sì alla vita", esemplificato in maniera metaforica, in questo testo, dalla duplice natura della dea Eris descritta da Esiodo: "Questi prima qualifica cattiva una Eris, ovvero la stessa Eris che induce gli uomini a una malevola lotta di reciproco annientamento, poi celebra come buona un'altra Eris che, nelle sembianze di gelosia, astio, invidia, desta gli uomini all'azione tipica non della lotta di annientamento ma di competizione. Invidioso è il Greco e percepisce questa qualità non come vizio, ma come opera di una divinità benevola". L'invidia è l'impulso fondamentale della vita, che spinge l'uomo di Genio a competere proprio perché sa che egli possiede, in potenza, tutte le doti per fare ancora meglio dei propri predecessori; se non esistesse questo impulso la vita sarebbe statica, gli uomini si crogiolerebbero nella mediocrità indistinta di un'uguaglianza che, in questo caso, non è sinonimo di "parità di diritti e di dignità" ma di "paura di emergere dalla massa", di smarcarsi per affermare la propria superiore individualità. "Il conflitto è il padre di tutte le cose, di tutte re" come sentenziò Eraclito.

In conclusione, vi sono due motivi per reperire e leggere Lo stato dei Greci. L'agóne omerico nell'edizione di Ar. Il primo, ovviamente, per il contenuto, che è quanto più distante dal comune modo di pensare e, proprio per la sua capacità di condurre il pensiero a quegli estremi a cui temiamo avvicinarci, è in grado di stimolare profonde e proficue riflessioni. Il secondo ha a che fare proprio con la cura editoriale riservata dalle edizioni di Ar nel pubblicare non solo questo testo, ma tutta la collana Alter Ego dedicata alle opere di Nietzsche, che dal testo al fronte, dalla qualità dell'impaginazione, della carta, delle note e dei commenti non ha nulla a che invidiare ad altre edizioni internazionali.

Lo stato dei Greci. L'agóne omerico - Friedrich Nietzsche, edizioni Ar

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Daniele Palmieri

domenica 23 ottobre 2016

Lo Schelling esoterico di "Clara": Natura, immortalità e mondo degli spiriti

Nello scegliere le mie letture ho la predilezione per i libri più improbabili, che difficilmente si trovano negli scaffali delle librerie e che soltanto il Libraccio è in grado di regalarmi. Penso, infatti, che per far circolare nuove idee sia essenziale rivolgersi soprattutto a quei libri poco letti e poco commentati, dove grandi intuizioni potrebbero attendere, nascoste, che qualcuno le riporti a galla.
Schelling non è certo un filosofo poco noto, sebbene nel campo dell'idealismo siano maggiormente studiati Fichte ed Hegel, almeno in Italia; tuttavia, tra i suoi scritti più pubblicati, letti e tradotti non compare di certo la breve opera incompiuta di cui intendo parlare (anch'essa riesumata da uno scaffale polveroso del Libraccio).
Si tratta di Clara, ovvero sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti, un titolo che sembra addirsi più all'opera di un medium come Kardec che a un filosofo idealista. In effetti, i collegamenti con il mondo esoterico sono numerosi e la genesi stessa dell'opera è datata durante una profonda crisi emotiva dell'autore.
Siamo tra il 1809 e il 1810, periodo in cui Schelling vive un travagliato lutto a causa della perdita della moglie; una sofferenza così acuta che lo porterà a dire, nelle conferenze di Stoccarda: "Ci sono dei casi in cui l'intelletto non può più dominare la follia che sonnecchia nelle profondità del nostro essere. Così l'intelletto non può offrire consolazione a un certo dolore".
In tale clima spirituale e intellettuale si situa Clara, un'opera consolatoria rimasta incompiuta che in molti tratti riflette un'altra opera classica, strettamente legata alla consolazione dalla morte, ossia il Fedone di Platone.
Clara è un testo incompiuto che nelle volontà dell'autore non sarebbe dovuto nemmeno essere pubblicato (ma, per fortuna, raramente si rispettano le ultime volontà degli autori circa i loro scritti) e che, inizialmente, era stato pensato come un insieme di quattro lunghi dialoghi, ciascuno ambientato durante una diversa stagione dell'anno, di cui Schelling ha però completato solamente l'autunno e l'inverno, lasciandoci soltanto un frammento della primavera e alcune note circa punti che avrebbe dovuto sviluppare.
Protagonisti dei dialoghi sono principalmente il narratore, che riporta quanto vissuto in prima persona, un medico e, soprattutto, Clara, che dà il titolo al testo. A margine si inseriscono, a seconda dei contesti, figure secondarie come il monaco del primo dialogo o la pellegrina dell'ultimo.
Tema che fa da filo conduttore di tutti i dialoghi è la morte. Clara, amica del narratore, viene da lui raggiunta per trovare consolazione dall'inaspettata morte del marito Albert.
Fin dal principio è proprio la morte a regnare sovrana. Il primo dialogo è infatti ambientato durante il Giorno dei Morti e, mostrandosi abile narratore oltre che grande filosofo, Schelling descrive con toni toccanti il rituale cattolico con cui si commemorano i defunti, mostrando quanto sia atavico e inscindibile il legame che ci lega ai nostri cari, tale da superare i limiti del terreno. "Com'è commovente questo costume" commenta il compagno del narratore che, assieme a lui, era andato a rincuorare Clara, "e come è ricco di significato questo ornamento di fiori tardivi sulle tombe. Non è forse giusto dedicare i fiori dell'autunno ai morti che in primavera, dai loro angusti loculi, ci fanno poi dono di fiori più gioiosi, a testimonianza della vita perenne e della resurrezione eterna?".
Dopo aver contemplato il rito, il narratore e il suo compagno, che in quel momento stavano attraversando un cimitero, proseguono il cammino per raggiungere Clara presso un monastero benedettino. Mi soffermo su questi particolari perché le ambientazioni dei dialoghi non sono fine a se stesse, ma vi è un'intrinseca connessione tra la natura circostante, gli uomini e i loro discorsi filosofici. Leggere Clara è come trovarsi catapultati all'interno di un quadro di Friedrich o in un racconto gotico di Hoffman. I dialoghi sono intervallati da pregiate descrizioni di una natura allo stesso tempo maestosa e terrificante, Sublime, che è in grado di proiettare i pensieri di chi si ferma a contemplarla verso mete metafisiche più elevate. "Trovammo la città vuota e desolata; ci fermammo per qualche tempo a rinfrescarci un poco e poi cominciammo a salire verso il maestoso monastero. Appena giunti ci condussero nella biblioteca dove ci attendeva un monaco giovane e colto che [...] ci raccontò che il principe, recentemente scomparso, lo aveva inviato in viaggio e che ora era il custode di quella biblioteca [...]. Ci mostrò delle rarità affidate alle sue cure, ma più di quei tesori morti ci attirava la meravigliosa vista che oltre la vetrata spaziava sulla pianura lontana: fino ai piedi dell'altura dove ci trovavamo, essa era disseminata di città e borghi, e attraversata da un fiume impetuoso che a tratti appariva qua e là, come uno stretto nastro argentato".
All'interno del monastero fa la sua prima apparizione Clara, che fin dalle prime battute mostra tutto il suo struggimento per la morte del marito ed è proprio dalla sua profonda sofferenza che si sviluppa il discorso filosofico.
Ogni elemento, in questa situazione, è scelto dettagliatamente da Schelling; l'autunno, nella simbologia esoterica, rappresenta metaforicamente il momento della discesa verso gli inferi, punto di partenza del viaggio iniziatico che comincia, necessariamente, con la scossa di una sofferenza profonda, che sradica tutte le certezze dell'iniziato, costringendoli così a mettersi alla ricerca di nuove verità. Ed è proprio questo lo stato d'animo di Clara che, a causa della morte del marito, si sente sradicata e dà avvio a una compulsiva ricerca filosofica che possa lenire il suo dolore.
"Il dolore suscitato dal passato si trasformò in un'inesprimibile aspirazione verso il futuro. Al tempo stesso, v'era una sorta di violenza nel suo sforzo per oltrepassare la natura e il reale. L'idea di forze naturali oscure e nascoste di cui ella si era già nutrita nella casa paterna [...] tutto ciò aveva dovuto riempirla del sentimento della presenza, nella natura, di una forza terrificante e senza nome, verso la quale si sentiva tanto attirata da un desiderio fremente quanto respinta".
La verità filosofica di cui i dialoganti trattano ha sempre questo aspetto tetro e inquietante; ha l'aspetto di un abisso oscuro che si apre nelle viscere del terreno, in fondo al quale alberga l'eterno segreto della realtà che può essere raggiunto soltanto tuffandosi nel vuoto, senza sapere quanto profondo sarà il nostro salto.
La spaccatura nel terreno di cui i dialoganti vanno alla ricerca è quella in grado di collegare il mondo terreno al mondo degli spiriti; ammessa l'esistenza di un mondo materiale e ammessa l'esistenza di una realtà spirituale, deve esistere una realtà mediana in grado di collegare un mondo all'altro, sia per quanto riguarda la realtà esterna sia per quanto riguarda l'uomo, composto di spirito e corpo così come la realtà è composta di spirito e materia.
Il collante che tiene insieme i due opposti è l'anima, un elemento sostanziale, immutabile e immortale. Il corpo diventa dunque la polarità oggettiva e reale, lo spirito la polarità soggettiva e ideale, mentre l'anima è la coscienza unificante in grado di conciliare i due opposti, ossia di aggiungere un principio materiale al principio spirituale e un principio spirituale a quello materiale ed è proprio questa connessione triadica a conferire all'uomo l'immortalità. "Possiamo affermare che uno soltanto dei tre elementi sia in modo esclusivo il legame di tutti gli altri? Non è forse ciascuno a sua volta un mezzo di unione per l'altro? Lo spirito passa nel corpo attraverso l'anima, ma attraverso l'anima il corpo è a sua volta elevato allo spirito. L'anima non si rapporta allo spirito se in questo stesso non esiste un corpo, ed essa non si rapporto al corpo, se in esso non vi è insieme uno spirito; infatti, se l'uno dei due viene meno, essa non può essere presente come unità, ovvero come anima. Considerato nella sua interezza l'uomo sembra dunque essere una sorta di circuito vivente, in cui ogni termine scorre continuamente nell'altro e in cui nessun elemento può separarsi dall'altro". Come sintesi dei due opposti l'anima ha però la preminenza, poiché in grado di contenerli entrambi e di perpetrare così il ciclo vitale.
In tutto ciò, la morte è proprio quella fenditura che, come un processo alchemico, permette all'uomo di portare alla luce la sua intima essenza più profonda: l'anima, che per fiorire necessita di essere incubata tra spirito e corpo ma che, per nascere, necessita di essere distillata per essere separata proprio dai due elementi in cui si trova dissolta. La morte non è dunque una fine, ma proprio quel ponte di collegamento che si andava cercando tra questo e l'altro mondo; un varco che, una volta attraversato, permette di far ritorno nell'Assoluto (il Dio/Natura di Schelling) come una goccia che cade nell'oceano ma che, allo stesso tempo, è in grado di preservare la propria singolarità, proprio perché essa si porta dietro sia il principio del corpo sia quello dello spirito, e, di conseguenza, la sua volontà e la sua libertà (ed è in questo modo che Schelling giustifica l'esistenza degli spiriti, "pure volontà" in grado di agire ancora attivamente nel mondo della materia).
Fine individuale che rispecchia anche il fine dell'intero cosmo, che tende a una suprema perfezione che coincide con la liberazione delle sue forze spirituali e il ricongiungimento degli opposti; da questo punto di vista, dunque, si stabilisce una connessione tra destino individuale e destino cosmico, altra concezione di carattere esoterico che si rifà all'idea dell'uomo come microcosmo e dell'universo come macroantropo.
"Noi esseri organici possiamo morire perché ciascuno di noi è un Tutto. Ma le altre cose non sono che parti di un Tutto superiore, la terra, e possono certamente, all'interno di questo Tutto, essere mescolate e modificate in mille modi, secondo quanto esige lo sviluppo del pianeta; per loro, tuttavia, il beneficio della morte, ovvero di una totale liberazione della forma spirituale della loro vita, non si verifica fintantoché il pianeta non pervenga alla sua meta stabilita e finché sia morto esso stesso".
Queste e altre concezioni filosofiche sono in grado di risollevare l'anima di Clara dal dolore del lutto e di condurla, una volta attraversato l'inferno, lungo la strada che ascendo verso la fine del viaggio iniziatico interiore che coincide con il paradiso, da intendere, in senso metaforico, come lo stato interiore di quiete e illuminazione derivante dalla conoscenza della verità. Purtroppo, come accennato in precedenza, del percorso di Clara successivo all'autunno e all'inverno possediamo soltanto un frammento della primavera, ma già da esso è possibile evincere la diversa propensione spirituale della protagonista, più simile a un germoglio in fiore che a una foglia appassita: "La primavera ha suscitato in me questa fioritura di pensieri e di speranza; mi è nuovamente apparso con chiarezza nell'intimo che siamo figli della natura, che le apparteniamo secondo la nostra prima nascita e non possiamo mai separarci interamente da essa; se non appartenesse a Dio, nemmeno noi potremmo appartenerGli, e se essa non potesse divenire una con Dio, anche la nostra unione con Lui dovrebbe essere imperfetta e persino impossibile. No, non siamo soli! Anche l'intera Natura anela a Dio, dal quale è stata assunta come cominciamento. [...] Il fuoco divino, che ora riposa rinchiuso in essa, prenderà un giorno il sopravvento e allora consumerà tutto ciò che è entrato nella natura solo facendo violenza alla vera interiorità, ritornando così nello stadio iniziale, essa non sarà più l'opera delle sue sole forze che custodivano, prigioniere in sé, le forze divine. Lo spirituale e il divino si uniranno liberamente all'essere purificato".
 
Schelling - Clara, ovvero sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti, Guerini e Associati Edizioni.

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Daniele Palmieri

martedì 18 ottobre 2016

Le Diatribe di Epitteto: lo stoicismo e la libertà interiore

Se dovessi descrivere Epitteto in poche parole lo definirei come il più grande filosofo della libertà interiore.
Pensatore stoico vissuto nel II secolo a.C. che fu in grado di stregare, tra i molti, personalità così lontane nel tempo tra loro come Marco Aurelio e Leopardi, Epitteto è uno di quei pensatori riducibile a poche, chiare e poderose idee di fondo, che sono in grado di risvegliare una scintilla in quelle anime sensibili al genio filosofico.
Coerente con lo spirito socratico, Epitteto non ci ha lasciato scritti di suo pugno ma, per fortuna, il suo allievo Arriano ha conservato e pubblicato i preziosi appunti delle sue lezioni, diffuse al grande pubblico con il titolo di Diatribe, e ha compendiato il suo pensiero, cogliendone le idee principali, nel più noto Manuale.
Il secondo testo è, ad oggi, quello più venduto, letto e ristampato; fino ad ora anche io avevo assaporato la sua grandezza basandomi soltanto su di esso, uno dei miei testi filosofici preferiti, ma ora che ho avuto la possibilità di leggere e approfondire le Diatribe ho riscoperto un volto nuovo, ancora più splendente, di questa grande personalità del pensiero antico.
Come già accennato, le Diatribe sono la trascrizione di una parte delle lezioni che Epitteto teneva nella sua scuola, in particolare la parte conclusiva in cui, dopo aver esposto e studiato gli insegnamenti più scolastici, gli alunni potevano porre al maestro i loro dubbi e le loro domande. Rispetto al Manuale, dunque, più freddo e quasi dogmatico con le sue sentenze tanto profonde quanto lapidarie, le Diatribe restituiscono un'immagine molto più viva, ironica, gioiosa, mordace e socratica del filosofo, allontanando così lo stereotipo dello stoico freddo e insensibile come la pietra.
Più di ogni altro pensatore della medesima corrente, Epitteto è in grado di mostrare mediante i suoi discorsi appassionati come lo stoicismo sia da considerare anzitutto una propensione filosofica alla vita o, come lo definisce Max Pohlenz ne La Stoà, un grande movimento spirituale.
Addentrandoci nel pensiero del filosofo, la prima distinzione fondamentale che egli pone e sulla quale si base l'intera sua etica è quella tra beni che dipendono da noi e beni che non dipendono da noi; nella seconda categoria rientrano le ricchezze, la gloria, gli onori, i legami affettivi e tutti gli aspetti della vita che, volente o nolente, sono in balìa del caos. Se essi giungono in nostro possesso, è lecito assaporarli, così come è lecito tentare di guadagnarli; tuttavia, prima ancora di imbarcarsi in tale impresa e di godere di questi frutti è essenziale radicare la nostra vita nei beni che dipendono da noi, i beni interiori, altrimenti non saremo in grado di assaporarli pienamente ma ne saremo soltanto dominati.
Tra essi, i più essenziali sono il giudizio, la morale e la libertà. Una volta radicata la nostra vita su questi tre pilastri, sarà possibile affrontare l'esistenza senza il rischio di venirne schiacciati; al contrario, senza svilupparli si vivrà eternamente schiavi dei beni che non dipendono da noi.
In tale prospettiva, dunque, la filosofia è essenzialmente un esercizio di vita atto a portare alla luce quelle che sono le nostre più profonde potenzialità e il filosofo che aspira la saggezza è simile all'atleta che, per vincere le Olimpiadi, deve sforzarsi ogni giorno per resistere la fatica fino a vincerla.
Il giudizio è il primo "muscolo" da allenare. Esso ha a che fare con la rappresentazione delle cose esterne e, in particolare, il valore che diamo a esse; è quest'ultimo, infatti, che ci fa soffrire e che ci rende schiavi dei beni materiali che non hanno valore in sé, ma che hanno valore soltanto nella misura in cui noi glielo attribuiamo. 
Un esempio utilizzato da Epitteto è quello della paura nei confronti dell'Imperatore. Qualsiasi uomo trovandosi di fronte all'Imperatore è portato a temerlo e ad avere, nei suoi confronti, un atteggiamento di passiva sottomissione; eppure, se all'Imperatore avviciniamo un bambino, abbastanza grande per essere cosciente ma ancora piccolo per comprendere le gerarchie sociali, quest'ultimo non avrà la minima reazione e, anzi, sarebbe in grado di avvicinarsi all'Imperatore senza battere ciglio. Com'è possibile che il bambino sia più coraggioso dell'uomo adulto? Ciò avviene proprio a causa del giudizio. Il bambino non si è ancora formato un giudizio sul concetto di Imperatore e su tutte le caratteristiche che gli vengono attribuite, poiché esse di fatti non gli appartengono "di per sé" ma sono frutto dei giudizi umani. Nel momento in cui l'adulto diventa in grado di spogliare le cose dai giudizi di valore che egli gli attribuisce, ecco che esse assumono un aspetto diverso. 
L'Imperatore viene ridotto a un uomo qualunque dotato delle stesse facoltà di tutti gli uomini.
"Sì, ma lui ha il potere di esiliarti" si ribatterà.
"Devo andare in esilio: ebbene, chi mi impedisce di avviarmi ridendo, di buon animo e sereno?” (Diatribe, Rusconi Edizioni, pp. 78) risponderebbe Epitteto; chi dice, infatti, che l'esilio debba necessariamente essere vissuto con struggimento? Il giudizio errato.
"Ha anche il potere di condannarti a morte".
"Devo morire. Se subito, sono pronto a morire; se fra un po’, ora pranzo, perché è l’ora; poi morirò. In che modo? Come si conviene a un uomo che restituisce quel che è di altri” (Diatribe, pp. 80) ribatterebbe Epitteto; cosa cambia, infatti, morire adesso o morire tra dieci anni, se prima o poi a tutti tocca il medesimo destino? E sarà tanto meglio morire da uomo libero piuttosto che da schiavo. Anche in questo caso, a dare valore negativo alla morte è soltanto un nostro giudizio.
"Ma l'Imperatore ha anche il potere di ridurti in schiavitù".
Ma io ti metterò i ceppi! Uomo, che dici? Metterai in ceppi la mia gamba; la mia scelta morale di fondo neppure Zeus può vincerla” (Diatribe, pp. 78) direbbe ancora Epitteto, che non può essere tacciato di mero intellettualismo poiché egli stesso aveva dovuto sopportare i ceppi della schiavitù, che la filosofia stoica gli rese sicuramente più leggeri poiché l'uomo libero è tale non in virtù di quello che possiede e del luogo in cui è costretto a vivere, ma in virtù della sua libera scelta morale. In questo ultimo passaggio entrano in gioco il secondo e il terzo concetto saliente della filosofia di Epitteto. 
La libertà, per Epitteto, è uno degli impulsi più forti della vita.
“Esamina, riguardo agli animali, come applichiamo il concetto di libertà. Si allevano leoni in gabbia, si addomesticano, si nutrono, e alcuni se li portano appresso. E chi potrà dire che si tratta di un leone libero? Non è vero che quanto più comoda è la sua vita, tanto più è schiavo? Quale leone, se acquistasse la consapevolezza e la razionalità, vorrebbe essere uno di questi leoni addomesticati?” (Diatribe, pp. 429).
Nell'uomo, la libertà di cui si parla è essenzialmente libertà morale, la forma più alta di libertà a cui l'uomo può aspirare: la libera scelta personale di seguire ciò che la nostra coscienza ritiene giusto, indipendentemente da quella che è l'opinione e la volontà altrui. La scelta morale è la forma più sublime della libertà poiché non scaturisce da un impulso proveniente dall'esterno, bensì da una volontà che è soltanto interiore, non filtrata dai desideri che ci trascinano con la loro forza anche contro il nostro volere. Una scelta che se difendiamo strenuamente non potrà mai essere condizionata da nessuno, poiché essa proviene dall'interiorità della nostra anima a cui nessuno, per quanto potente, può avere accesso, soprattutto nel momento in cui ci siamo liberati dal ceppo dei giudizi di valore che attribuiamo alle cose esterne. Liberi, infatti, dalla paura di perdere ciò che inevitabilmente, un giorno, siamo destinati a lasciare, cominceremo a vivere senza alcun timore, pensando soltanto a realizzare la nostra perfezione interiore e a rispettare i nostri doveri morali verso gli altri, abbandonata ogni prospettiva egoistica (anch'essa dipendente dai giudizi di valori).
Non è certo semplice sviluppare una propensione simile alla vita; come già detto in precedenza, ci vuole esercizio; nulla si ottiene senza sforzo. L'importante è affrontare le avversità con la giusta attitudine spirituale, considerandole come l'esercizio necessario per temprare la nostra anima.
Utilizzando le parole di Epitteto:
“Lotta con te stesso, riportati alla compostezza, al rispetto e alla libertà. […] Non devi uccidere nessuno, né incatenare, né fare violenza, né andare all’agorà, ma parlare con te stesso, ossia all’uomo che è più in grado di darti ascolto, verso il quale nessuno può essere convincente più di te. E, innanzitutto, condanna quel che è avvenuto, poi, dopo aver condannato, non disperare di te e non provare i sentimenti degli uomini ignobili, i quali, dopo un primo cedimento, si lasciano andare completamente e sono, per così dire, trasportati dalla corrente; bensì, apprendi come si comportano gli allenatori. Il ragazzo è caduto. “Alzati,” gli dice l’allenatore “e ricomincia a lottare”. Qualcosa del genere provalo anche tu; sappi, infatti, che niente è più facile a guidarsi di un’anima umana. Basta volere, ed ecco: è raddrizzata; d’altronde, se solo sonnecchi è perduta. Difatti è dentro di noi che si trovano sia il danno sia il rimedio [...]
“Non ripetermi più: Come si volgerà la cosa?  Perché, comunque si volga, te ne saprai servire convenientemente e l’accadimento sarà per te un successo. Chi sarebbe stato Eracle se avesse detto: “Come evitare che mi si presenti davanti un grosso leone o un grosso cinghiale o degli uomini selvaggi?” E che ti importa? Se ti si presenta davanti un grosso cinghiale, sarà più eroica la lotta che combatterai; se degli uomini malvagi, sgombererai il mondo dai malvagi. E se, così facendo, morissi? Morirai da uomo valente, nel compimento di una nobile impresa. Poiché, infatti, bisogna di certo morire, necessariamente devi essere sorpreso mentre fai qualcosa, mentre lavori i campi o zappi o commerci o ricopri la carica di console o hai un’indigestione o la diarrea. In quale occupazione vuoi essere colto dalla morte? Per quanto mi concerne, vorrei essere sorpreso mentre compio un’azione davvero umana, un’azione benefica, utile alla società e generosa” (Diatribe, pp. 499-501). 

Questi sono solo tre dei molti temi affrontati dalle Diatribe, che consiglio a tutti di leggere poiché è uno di quei testi i quali, condivisi o meno dal lettore, non possono che portarlo a una maggiore consapevolezza di sé sfogliata l'ultima pagina.
Similmente ad Arriano, ho deciso dunque di compendiare alcuni dei temi principali formando una secondo, più breve, Manuale, raccogliendo le citazioni che più mi hanno colpito nel file in pdf che allego qui sotto.

Epitteto, Diatribe (Download)

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Daniele Palmieri