venerdì 30 dicembre 2016

Ritratto di Seneca

Seneca fu un uomo dalle molte contraddizioni e per tutta la vita ricercò un’agognata tranquillità interiore con lo sforzo filosofico. Pur condividendo l’ottimismo stoico, non riusciva a pararsi gli occhi di fronti alla dissoluzione imperante e ritenne che le erbacce avevano ormai seppellito il germe del bene che alberga nell’uomo. La filosofia è l’unica materia che può salvare il genere umano, materia di cui l’etica rappresenta il frutto più pregiato. Per quanto riguarda le passioni, egli aderì alla teoria posidoniana secondo cui esistono degli stadi preliminari in cui le emozioni si presentano involontariamente dal logos e soltanto in seguito questo interviene a portare ordine, ma quelle più pericolose e da estirpare sono le emozioni vere e proprie che ci trascinano e non il semplice impallidire o il rossore dell’ira. L’apatia completa non è né possibile né auspicabile. L’uomo deve evitare più realisticamente di lasciarsi trascinare dal proprio istinto, e deve evitare che le manifestazioni esterna di tristezza divengano delle profonde affezioni. Il patire è l’atto preliminare, l’affezione lo stato secondario che si insinua nell’hegemonikon e condiziona il logos. Il momento educativo che plasma la mente del giovane è determinante. Esso permette al logos di preservare la propria libertà e solo per questa via raggiungiamo la securitas, l’atarassia e la passiva lietezza interiore. Per lui la scrittura filosofica fu sempre un fatto molto privato e fu sempre dai problemi concreti della propria vita che egli prese spunto per le proprie riflessioni. Il ritiro dalla vita politica in tarda età fece sì che egli si concentrasse sul proprio io, dando ai concetti dell’etica romana un contenuto nuovo, individualistico. La virtus non divenne più soltanto una virtù civile e guerriera, ma una virtù intima di chi è in grado di affrontare la vita e di conquistarsi la felicità. La libertà, persa quella politica, divenne libertà interiore; il populus si trasformò in una comunità apolitica dalla quale dobbiamo astarci se non vogliamo essere contaminati dalla sua immoralità. Prende maggiore forza inoltre l’ideale di humanitas, non più in senso civile e sociale come quello ciceroniano, ma con un’accezione filantropica, un sentimento che porta l’uomo a interessarsi di ciò che riguarda gli altri uomini, come testimonia, ad esempio, il suo interesse per la condizione degli schiavi e dei gladiatori. Una propensione spirituale diversa dalla compassione; si tratta piuttosto di una sorta di simpatia razionale, che ha le proprie fondamenta nel riconoscere l’umano dell’uomo. L’azione buona non dev’essere un affare, tantomeno deve essere spinta da impulsi razionali, bensì deve trovare il proprio fondamento in tale attitudine. Ciò che Seneca sottolinea è l’intenzione con cui compiamo l’atto. Oltre a Dio, soltanto la nostra coscienza può essere testimone di tale intenzione ed è dunque la nostra coscienza il tribunale a cui dobbiamo rispondere. Per la prima volta nella filosofia greco-romana la coscienza viene considerata come una forza viva e attiva, idea che nasce dall’abitudine di Seneca a meditare, ogni notte, su quanto aveva compiuto e che egli riprende in parte da Sestio e dai Pitagorici. Solo con Seneca però l’autodisciplina etica diventa un impegno totale, che dà la sua impronta alla vita dell’uomo e ne fornisce il contenuto effettivo. Una tale conoscenza di sé spinge l’uomo a migliorarsi costantemente. Altro carattere distintivo fu l’accezione data alla voluntas personale, la volontà di compiere il bene come libera decisione di noi stessi, proveniente dalla nostra interiorità, un requisito essenziale per completare l’intenzione di compiere il bene. Fu Seneca il primo a introdurre la distinzione tra buona e cattiva volontà. Essa è la spinta motrice che ci permette di trasformare in pratica la teoria e di perfezionarci e proprio mediante la volontà egli apre una breccia nell’intellettualismo della Stoà antica. Sempre Seneca introdusse una sfumatura più trascendentale di Dio, visto non più come la parte complementare della materia ma come causa sui che genera l’universo con una materia che, però, è imperfetta; non viene meno però la visione immanente della divinità, semplicemente la componente spirituale assume una preminenza maggiore rispetto a quella materiale. Dio è sommamente buono e ha dotato l’uomo della virtus adatta a sopportare e vincere le intemperie. La stessa morte non è una condanna ma la fine di ogni cosa e non deve essere temuta; superata la paura della morte, conquistiamo la forza di compiere qualsiasi azione. D’altronde proprio la morte è la grande via di uscita che permette al filosofo di preservare la propria libertà nel momento in cui essa non può più essere esercitata.


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Daniele Palmieri

martedì 20 dicembre 2016

I 10 principi della nobile arte dell'insulto di Liang Shiqiu

La nobile arte dell’insulto di Liang Shiqiu è un breve pamphlet, che riecheggia gli antichi testi di strategia militare cinesi, dai quali attinge a piene mani per applicare i principi dell'arte bellica a un'altra forma di scontro, lo scontro verbale.
L'arte del conflitto verbale è fondata da Shiqiu sul principio generale seguente: L’insulto si fonda sul principio etico per cui si dovrebbe rendere conto se una persona meriti o meno di essere insultato. Bisogna sempre riflettere se vale la pena o meno insultare una persona. Sulla base di questo principio occorre poi declinare le dieci strategie seguenti:
1.       Conoscere se stessi, conoscere gli altri. Bisogna ponderare la propria forza e quella altrui prima di compiere un insulto, e stare attenti che ciò che imputiamo al nostro avversario non possa esserci rivolto contro.
2.       Non insultare chi non è al nostro livello. La persona scelta deve essere di rango poco superiore al nostro; non individui troppo rozzi che non potrebbero comprendere la finezza dell’insulto, e al massimo potrebbero rispondere con la violenza, né individui dalla mente superiore, troppo intelligenti per dare peso agli insulti, i quali non li scalfiggono nemmeno. Non insultare nemmeno individui privi di valore, perché così non si fa altro che dargli valore.
3.       Sapersi fermare al momento giusto. Sferrato l’insulto, se l’altro non ribatte allora riconoscere la propria vittoria senza eccedere con ulteriori insulti, per non sembrare sadici aguzzini; se l’altro continua a ribattere, essere in grado di comprendere quando è il caso di fermarsi per non mostrarsi ridicoli.
4.       Colpire di fianco, attaccare obliquamente. L’insulto non deve mai essere esplicito, volgare e diretto, ma sottile, tagliente e obliquo come una katana.
5.       Contegno pacato. Avere sangue freddo, non mostrarsi né agitati né irati ma mantenere la propria pacatezza, apparire serenamente distaccato dalle circostanze. L’uomo ottuso è privo di contegno, il campione dell’arte dell’insulto occulta il proprio gioco.
6.       Servirsi di espressioni e maniere eleganti.  Le critiche devono rimanere velate, espresse con un linguaggio all’apparenza cordiale e raffinato; l’avversario non deve accorgersi fin dalle prime parole che tu lo stai criticando.
7.       Ritirarsi per avanzare. Ammettere senza imbarazzo i propri punti deboli, proprio per evitare che l’avversario possa accanirsi su di essi.
8.       Presupporre e stare in agguato. Stare attenti alle invettive che l’avversario ci indirizza per volgerle contro di lui; allo stesso tempo, cercare di prevedere gli insulti che potrebbe rivolgerci per poterli aggirare preventivamente per poi confutare le sue critiche, impedendogli così di contrattaccare.
9.       Fare molto con pochi argomenti. Partire da pochi argomenti di discussione per condurre l’avversario dove si desidera e poi sferrare il colpo finale.
10.   Allearsi ai lontani per attaccare i vicini. Solitamente è meglio rivolgersi singolarmente al proprio interlocutore, ma se si sente la necessità di coinvolgere nell’insulto altre persone allora far credere a tutti che lo si fa in nome dell’interesse comune. Bisogna però ponderare con attenzione se è il caso di coinvolgere anche gli altri; la strategia potrebbe volgersi contro e ci si potrebbe trovare sommersi dagli insulti di tutti.



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Daniele Palmieri

sabato 3 dicembre 2016

Machiavelli e le virtù politiche del vero leader

Il Principe di Machiavelli è la prima, grande, opera di realismo politico occidentale. Letto e commentato in ogni epoca storica, al giorno d'oggi molti lo citano ma in pochi lo hanno letto veramente; per lo più risulta filtrato dagli stereotipi che circolano ed è noto più per il famoso concetto del fine che giustifica i mezzi.
Uno degli aspetti che ha reso così famoso il testo di Machiavelli è, come già accennato, il realismo politico e il disincanto con cui l'autore fiorentino guarda le dinamiche umane. Ed è a partire da una concezione piuttosto negativa dell'antropologia umana che delinea quelle che dovrebbero essere le virtù politiche del perfetto principe, con il quale egli sarà in grado di conquistare e mantenere il potere.
Per quanto riguarda le azioni del principe per mantenere il proprio potere, è importante che questi agisca non in base a ciò che si dovrebbe fare, ma in base a ciò che deve essere fatto. Non è possibile, infatti, che un uomo buono sia in grado di reggere con l’onestà e la correttezza un regno in un mondo in cui la maggior parte degli uomini non sono né buoni né corretti. E’ necessario, per un principe, imparare a poter essere "non buono" (come scrive lo stesso Machiavelli) e a utilizzare e a non utilizzare i mezzi sporchi secondo necessità.
Le qualità e i vizi generalmente attribuiti a un principe sono: donatore o rapace, pietoso o crudele, fedele o traditore, pusillanime o effemminato, animoso o feroce, umano o superbo, casto o lascivo, intero o astuto, facile o duro, leggiero o grave, ateo o religioso. In un mondo ideale è chiaro che sarebbe auspicabile per il principe possedere tutte le virtù positive; ma viviamo in un mondo imperfetto, composto da uomini imperfetti, e di conseguenza sarà tanto meglio seguire un vizio in grado di farci mantenere il potere piuttosto che una virtù che lo metterebbe a repentaglio.
Bisogna dunque abbandonare la semplicistica dicotomia virtù e vizio; virtù sarà ciò che permette al principe di mantenere il potere e vizio ciò che lo mette a rischio.
Le virtù politiche che il principe deve possedere sono:
1) La liberalità e la parsimonia: “Et intra tutte le cose di che uno principe si debba guardare, è lo essere contennendo et odioso; e la liberalità all’una e all’altra cosa ti conduce. Per tanto, è più sapienza tenersi el nome del misero, che partorisce un’infamia sanza odio, che, per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome di rapace, che partorisce un’infamia con odio” (pp. 63).
Per quanto riguarda la liberalità, ossia la donazione di ricchezze o la tassazione sui sudditi, è meglio essere considerato misero, che partorisce un’infamia senza odio, piuttosto che scialacquare senza ritegno le proprie ricchezze per ottenere il favore del popolo, che condurrà a impoverirsi e dunque poi a diventare rapaci e dunque a partorire tra il popolo un’infamia con odio.
2) La crudeltà e la pietà: “Ciascuno principe debbe desiderare di esser tenuto pietoso e non crudele: non di manco debbe avvertire di non usare male questa pietà. […] Debbe per tanto uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi uniti et in fede; perché con pochissimi esempi sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciano seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o di rapine: perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare” (pp. 64).
Il principe deve essere in grado di dosare pietà e crudeltà alla giusta maniera; è meglio essere considerati pietosi, ciò non di meno non bisogna incedere troppo nella pietà nel momento in cui essa mette a repentaglio la stabilità dello stato e occorre mostrarsi crudele con chi ne mette a repentaglio l’ordine o ne infrange oltre misura le leggi. In questo modo, infatti, si perpetrerà un male particolare ma si preserverà l’integrità dell’universale.
3) Amore e odio: “Che la trioppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile. Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o converso. Respondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma, perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno d’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori d’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina […] E li uomini hanno meno respetto ad offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da un vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non si acquista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognassi procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e causa manifesta; uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio” (pp. 65).
E’ meglio essere temuti che amati, poiché il timore è stabile in ogni condizione mentre l’amore produce falsità e piaggeria, e gli uomini che in buona sorte ti amano per avere una fetta della torta, alla prima avversità voltano le spalle allontanandosi da te. Che il timore però non sia accompagnato dall’odio; un uomo, infatti, può essere temuto senza essere odiato, nel momento in cui le sue scelte e le sue decisioni non danneggiano arbitrariamente i sottoposti e non intacchino i loro beni più personali, come la proprietà.
4) La legge e la bestia: “Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’una con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo. […] Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la volpe et il lione; perché il lione non si difende da’ lacci, la volpe non si difende da’ lupi. Bisogna dunque essere volpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano” (pp. 67).
E’ peculiare degli uomini il governo della legge, mentre delle bestie il governo della forza bruta. Tuttavia, per affermare il governo della legge è spesso necessario il governo della forza bruta. Il principe saprà dunque saper usare entrambi i tipi di forza, quella bestiale e quella umana. Sarà dunque forte come un leone e astuto come una volpe. La forza bruta deve essere dosata dall’intelligenza per non essere cieca e l’intelligenza deve avere il supporto della forza bruta per imporsi.
5) Simulazione e dissimulazione: “E’ necessario questa natura saperla ben colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare. […] A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le sopradescritte qualità, ma è bene e necessario parere di averle. Anzi, dirò di questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, et essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbia un animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono […]. Debbe dunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu s’e’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti” (pp. 69).
Il principe deve essere in grado di simulare virtù, senza essere necessariamente virtuoso, e allo stesso tempo deve essere in grado di dissimulare il vizio. Gli uomini, infatti, si basano soprattutto sull’apparenza e non è necessario essere necessariamente virtuosi se si è in grado di simularsi tali.
Machiavelli - Il principe (Garzanti edizioni)
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Daniele Palmieri