domenica 26 novembre 2017

Meister Eckhart: Dell'uomo nobile. La forza di diventare Dio

Meister Eckhart fu uno degli animi più geniali e sensibili di tutto il medioevo. La sua mistica fu una delle più innovative e profonde, in grado di trascendere il cristianesimo in sé per attingere alle medesime fonti spirituali archetipiche proprie di ogni grande corrente mistica. Molti sono, ad esempio, i punti di contatto con il Buddhismo Zen, ben evidenziati da Suzuki in Mistica Orientale e Mistica Occidentale.
Il tema principale della sua riflessione, declinata con il linguaggio cristiano ma, come si diceva, spesso "sovraconfessionale", tant'è che costò all'autore un processo per eresia, è il rapporto tra uomo e Dio. Un rapporto che il mistico tedesco tenta di recuperare nella sua essenza più intima, non solo riallacciandosi alla tradizione agostiniana per la quale la voce di Dio alberga dell'anima, ma andando oltre e mostrando come l'uomo possa elevarsi a Dio, divenendo egli stesso un tutt'uno con Dio.
Riassumere la varietà e la profondità dei percorsi spirituali illustrati da Eckhart risulta impossibile in un solo articolo; qui ci si limiterà esclusivamente a sottolineare alcuni degli elementi principali su questo percorso: le opere umane, l'intenzione, la volontà e, infine, l'elevazione a Dio.
Anzitutto, Meister Eckhart, inserendosi nella disputa sul libero arbitrio e la salvezza eterna, propone una soluzione del tutto originale, che offre una via trasversale tra i teologi che negavano l'importanza delle opere per la salvezza, propendendo per la predestinazione, e i teologi che invece davano alle opere umane tutta l'importanza.  
Il mistico tedesco supera il problema coniando la teoria dell'etica dell'intenzione di Abelardo sia con l'etica stoico-aristotelica, per la quale l'uomo realmente virtuoso è colui che agisce provando piacere per l'azione buona, anche se essa non va a buon fine, sia con l'importanza di agire attivamente all'interno del mondo attraverso le opere. In tale prospettiva, l'uomo è sì dotato di libero arbitrio, ma ciò che conta non è esclusivamente il compimento delle opere buono le quali, da sole, non bastano a renderlo "santo"; la medesima azione buona, infatti, potrebbe essere condotta per motivi opportunistici o spregevoli; allo stesso tempo, potremmo non essere in grado di portare a termine un'opera buona a causa delle contingenze della vita, ma avere nell'animo la più sincera volontà di compierla. Se a contare fossero solo le opere, dunque, si giungerebbe all'assurdo che il primo uomo, benché mosso da secondo fini poco onesti, raggiungerebbe la salvezza eterna per la realizzazione dell'azione, mentre il secondo, nonostante la buona intenzione e la pura volontà, sarebbe condannato per non essere stato in grado di compiere il suo obiettivo.
Per risolvere il paradosso, occorre dunque focalizzarsi sull'intenzione, non sulla realizzazione dell'azione. L'uomo nobile possiede sempre un'intenzione pura, per qualsiasi azione egli compia; ne consegue che non sono le opere a santificare lui, ma è lui a santificare le opere attraverso la propria volontà e la propria azione, anche quando esse per causa di forza maggiore non giungono a termine. Come scrive Eckhart: 

"Non bisognerebbe tanto pensare a cosa si deve fare, quanto piuttosto a ciò che si è: se si fosse buoni, e buono fosse il nostro modo di essere, le nostre opere risplenderebbero luminose. Se tu sei giusto, anche le tue opere sono giuste. Non si pensi di fondare la santità sulle opere, sa santità va fondata sull'essere, giacché non sono le opere che ci santificano, siamo noi che dobbiamo santificare le opere. Per sante che siano, le opere esse non ci santificano assolutamente in quanto opere, ma, nella misura in cui siamo santi e possediamo l'essere, in questa stessa misura noi santifichiamo le nostre opere [...]. Quelli che non sono di natura nobile, qualsiasi opera compiano, essa non vale nulla" (Meister Eckhart, Dell'Uomo nobile, Adelphi).

Per questo Eckhart, mostrando come il concetto di tolleranza non fosse alieno agli uomini medievali, è aperto a ogni via che possa condurre all'elevazione interiore a Dio, consapevole che se una è la meta, molteplici sono le strade per raggiungerla, in base alle esigenze, alla diversità, alle attitudini e alla forza dei differenti individui. Sarebbe assurdo, infatti, esigere che tutte le persone si tormentino con atroci sofferenze e scelgano la via o dei martiri o degli anacoreti del deserto; soltanto poche persone, sicuramente di nobile spirito, sono in grado di intraprendere questi percorsi. Ma strade altrettanto nobili si dispiegano anche durante la semplice vita quotidiana dell'uomo comune, in grado di agire con una pura, retta e sincera intenzione. 
Ne deriva che non bisogna biasimare coloro, anche di altre professioni, che seguono strade divergenti dalla nostra, ma anzi bisogna essere aperti e ben disposti nei loro confronti, nel momento in cui ci rendiamo conto della loro sincera intenzione a compiere del bene. Scrive Eckhart, in un lucido esempio di tolleranza nell'epoca in cui fioccavano le condanne per eresia: 

"Dio non fa dipendere la salvezza degli uomini da alcun modo particolare. Ciò che è proprio all'un modo, non è proprio all'altro; a tutti i modi buoni Dio ha dato la possibilità di essere realizzati. Infatti un bene non è opposto all'altro. Ecco come accorgersi che si sta facendo un torto a qualcuno: quando ci imbattiamo in un uomo buono, oppure sentiamo parlare di lui, sapendo che non segue il nostro modo di agire, noi subito pensiamo che tutto sia perduto. Se il modo di agire di quella persona non ci piace, non apprezziamo più il suo buon modo di fare e la sua buona intenzione. Questo è ingiusto. Bisogna invece dare molta importanza all'intenzione delle persone, nel loro modo di agire, e non disprezzarne alcuno. Nessuno può avere un solo modo di agire, né tutti gli uomini possono averne uno solo; così un singolo uomo non può averli tutti, né avere quello di ciascuno. Ciascuno mantenga il proprio buon modo di agire e faccia entrare in esso tutti gli altri e vi accolga ogni bene e ogni modo di agire" (Meister Eckhart, Dell'uomo nobile, Adelphi).

Da ciò deriva la grande attenzione pratica di Eckhart nei confronti della vita quotidiana. Il santo non è colui che si estrania dal mondo, ma la persona in grado di santificarlo attraverso la propria intenzione e la propria volontà agendo attivamente in esso, aiutando l'umanità e la comunità all'interno della quale si trova inserito. Paradossalmente, infatti, ricercare l'estasi mistica e la bontà di Dio soltanto per se stessi, significherebbe cadere in una forma di egoismo. Il vero santo anela all'amore di Dio, ma lo fa attraverso il prossimo, senza fuggire dai dolori del mondo ma anzi immergendosi in essi, con la consapevolezza che il dolore è l'unica strada percorribile verso Dio, poiché esso tempra l'animo umano e lo prepara ad ascendere verso livelli superiori di coscienza. Citando le sue parole:

"Pur se tutto questo fosse amore pieno e totale, non sarebbe ancora la cosa migliore, ed ecco perché: si deve talvolta, per amore, abbandonare tale giubilo per qualcosa di migliore, o, talvolta, per compiere una necessaria opera di amore spirituale o materiale. L'ho già detto altre volte: se anche fossi rapito in spirito come san Paolo e sapessi che un malato aspetta da me un po' di minestra, riterrei preferibile, per amore, uscire da tale rapimento e soccorrere l'indigente in un amore più grande" (Meister Eckhart, Dell'uomo nobile, Adelphi).

Concetto che ricorda molto sia la storia del risveglio di Buddha, che inizia la sua ricerca spirituale quando scopre le sofferenze del mondo, sia l'immagine sempre Buddhista del Bodhisattva, l'Illuminato che, di fronte al Nirvana, decide non di dissolversi in esso ma di tornare nel mondo per continuare ad aiutare gli uomini.
In tutto ciò, la volontà gioca un ruolo cruciale. Si tratta non soltanto della volontà di agire rettamente, ma di farlo assumendo la prospettiva più elevata possibile: la prospettiva di Dio. In altri termini, far coincidere la propria volontà con la volontà di Dio, divenendo noi stessi Dio.
Come è possibile raggiungere questo elevato livello di coscienza? Secondo Eckhart, Dio è la luce che nasce all'interno dell'anima; o, meglio, citando un passo del Libro dei XXIV filosofi, che molto riecheggia la filosofia eckhertiana, "Dio è la tenebra che rimane nell'anima dopo ogni luce". Questo perché per riuscire a giungere a Dio bisogna svuotarsi. Bisogna abbandonare se stessi, le proprie aspirazioni, i propri desideri, i propri tormenti, i propri dubbi, il proprio attaccamento, tutto quanto di piccolo e irrilevante riusciamo a scovare. Il tutto non per diventare schiavi, inermi burattini nelle mani del Signore, ma al contrario per raggiungere un infinito grado di libertà e di volontà. Difatti, soltanto quando ci si è svuotati da tutti i rifiuti che albergano nel nostro animo ecco che si apre un vuoto, lo spazio per accogliere l'infinita potenza e l'infinita volontà di Dio che divengono, a tutti gli effetti, parte di noi. Se ci spogliamo della nostra individualità, è dunque per assumere a tutti gli effetti la volontà di Dio e in tale prospettiva, proprio perché tutto accade secondo la sua volontà e la sua potenza, tutto accade secondo la nostra volontà e la nostra potenza, poiché l'Io e Dio divengono un tutt'uno inscindibile. Per questo Eckhart scrive:

"Nessuno viene veramente figlio se non diviene egli stesso Figlio, e nessuno è là dove è il Figlio, nel grembo del Padre, Uno nell'Uno, se non ci è figlio" (Meister Eckhart, Dell'uomo nobile, Adeplhi).

Tutti, come Cristo, siamo figli di Dio. Gesù non fu figlio di Dio soltanto perché concepito da Dio stesso, ma Gesù divenne Figlio di Dio, al pari di Dio stesso, poiché attraverso il suo percorso spirituale divenne Cristo. Dunque per elevarsi al pari di Cristo, per divenire Cristo e, a tutti gli effetti, Figli di Dio, occorre compiere il suo medesimo percorso, che è fatto di amore e sofferenza, di gioia e dolore, di fratellanza e compassione, di ferma volontà anche di fronte alla condanna immotivata, di pura intenzione in ogni occasione, con la consapevolezza di doversi impegnare nelle opere buone ma che ciò che conta non è la loro realizzazione, bensì la propensione spirituale che ci muove ad agire, poiché:

"Per l'uomo giusto, dalla perfetta volontà, nessun tempo sarà mai troppo breve. Perché, se la sua volontà è tale che egli vuole assolutamente tutto ciò che può - e non soltanto ora: anche se visse mille anni vorrebbe fare ciò che può - una simile volontà porta tanto frutto quanto le opere che si potrebbe compiere in mille anni: davanti a Dio egli ha compiuto tutto questo" (Meister Eckhart, Dell'uomo nobile, Adelphi)

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