domenica 17 dicembre 2017

Aldo Manuzio: L'inventore dell'editoria

Aldo Manuzio, dotto umanista del XVI secolo, fu autore di una grande e silenziosa rivoluzione, che cambierà per sempre, nei secoli a seguire, l'assetto culturale di gran parte dell'Europa, e di cui ancora oggi siamo gli eredi. Pochi sanno, infatti, che proprio Aldo Manuzio fu l'inventore dell'editoria così come la conosciamo al giorno d'oggi, perlomeno nei suoi pilastri principali.
Nato a Bassiano sulla metà del XV secolo, la rivoluzione culturale di Aldo Manuzio avvenne a partire dal 1490, intorno ai suoi quarant'anni di vita, quando si trasferì a Venezia per intraprendere la sua nuova attività.
Venezia era, all'epoca, una delle città Europee più fiorenti dal punto di vista della cultura e, soprattutto, la stampa di opere letterarie. A Venezia infatti risiedevano le principali stamperie d'Europa, come quella di Nicholas Jenson.
Qui Aldo Manuzio dà avvio alla sua grandiosa rivoluzione, che silenziosamente ha contribuito al diffondersi della cultura in tutta Europa. 
Circondato di collaboratori, tra traduttori, correttori di bozze, stampatori, critici letterari, scrittori e filologi, nonché di una sempre più ramificata rete di distribuzione anche anche al di fuori dell'Italia, Aldo Manuzio inventa la prima "casa editrice" nel senso contemporaneo del termine.
Le edizioni di Manuzio si contraddistinguono per la grande cura editoriale, formato tascabile simile a quello moderno, in modo che i lettori potessero comodamente trasportare i propri libri senza doverli necessariamente rilegare alla propria biblioteca e per una cura filologica estremamente accurata; come egli stesso scrive:

"Ho potuto disporre di innumerevoli manoscritti e ho avuto cura che venissero riprodotti a stampa nel modo più corretto possibile, né mi sono permesso di aggiungere o togliere alcunché" (Aldo Manuzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, Adelphi, pp. 62).

Ogni manoscritto che egli recuperava veniva da lui accostato ad altri manoscritti della stessa opera, per confrontare le varianti, rintracciare gli errori, comprendere quale fosse l'edizione più antica e segnare, in nota, le diverse varianti, in modo che gli studiosi potessero essere consapevoli delle diverse tradizioni tramandate del medesimo testo. Una cura filologica così minuziosa che gran parte dei testi ripubblicati da Aldo Manuzio sono tutt'oggi delle editio princeps estremamente affidabili, utilizzate dagli studiosi e dai traduttori a noi contemporanei.
Anche dal punto di vista della rilegatura Aldo Manuzio si rivela estremamente innovativo; al di là dell'aspetto editoriale già citato, ossia il formato "tascabile" delle sue edizioni, l'editore veneziano fu il primo a utilizzare un simbolo sul frontespizio di ogni testo, per caratterizzare le proprie pubblicazioni, come le odierne case editrici: un'ancora sulla quale si avvolge un delfino, insieme al motto: festina lente, affrettati lentamente. 
In terzo luogo, Aldo Manuzio rivela uno spiccato intuito editoriale non solo nel raggruppare tematicamente i testi da lui pubblicati (ad esempio, dedicare un'intera pubblicazione a testi di Grammatica, di Botanica, o di Fiabe di diversi autori), ma addirittura nello studiare la rilegatura del testo in modo che esso potesse essere "modificato" in base alle esigenze del lettore, che, su richiesta, poteva decidere di rimuovere agevolmente dei fascicoli o di aggiungerne altri.
Anche nella scelta dei testi da pubblicare Aldo Manuzio mostra un intuito editoriale e una spregiudicatezza fuori dal comune. Oltre ai classici latini, molto in voga nella sua epoca, egli intraprende un laborioso, azzardato e allo stesso tempo coraggioso lavoro di recupero di testi in greco antico; lingua all'epoca poco conosciuta, soprattutto in Italia, ma di cui Aldo era un grande estimatore, a tal punto che nello statuto della Nuova Accademia, suo personale centro di studi, si legge che in essa si potesse parlare solo in greco e che chiunque avesse utilizzato un'altra lingua sarebbe stato multato.
Proprio questa attività di recupero e pubblicazione dei testi greci fu di grande importanza per tutta l'Europa, poiché permise da un lato di reimmettere nel mercato librario testi ormai introvabili, e dall'altro di far rifiorire lo studio e la discussione su questi testi e sulla cultura antica, che lentamente rischiava di essere distrutta e dimenticata, anche a fronte delle continue guerre che imperversavano in Italia e in Europa.
Per questo l'aspetto più rivoluzionario di Aldo Manuzio fu proprio il suo grande amore per la cultura, nei confronti della quale impegnerà ogni suo sforzo, nella speranza che essa potesse giovare alle barbarie e all'ignoranza che imperversava tra i comuni e gli stati. 
Come scrisse in una delle sue lettere prefatorie:

"Mi avvalgo di moltissimi collaboratori, uomini di grande dottrina, con l'aiuto dei quali i nostri libri arriveranno nelle mani dei lettori quanto più possibile corretti. [...] Ci siamo dilungati un po' su questi temi, perché quanti desiderano distinguersi nelle arti belle si compiacessero e sperassero in un futuro di gran lunga migliore grazie all'abbondanza di buoni libri, per mezzo dei quali - ci auguriamo - sarà finalmente scacciata ogni barbarie: non credo, infatti, che gli esseri umani siano tanto irragionevoli da continuare a cibarsi di ghiande anche dopo aver scoperto i cereali" (Aldo Manuzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, Adelphi, pp. 58-59)

Mosso dalla sua bibliofilia, dall'amore per la cultura e anche dal suo spirito imprenditoriale, Aldo Manuzio rivoluzionò il modo di intendere la cultura, inventando un nuovo mestiere, quello di editore, e senza il suo contributo la vita culturale europea, passata e futura, sarebbe stata molto diversa. 
In un'epoca in cui si dice che "con la cultura non si mangia" e in cui la stessa editoria versa in una crisi tanto economica quanto culturale e morale, giacché gli unici testi in cui si investe sono ormai quelli del personaggio televisivo, dello youtuber o della star di turno, il messaggio e l'esempio di Aldo Manuzio è quantomai attuale, e il suo spassionato amore per la cultura dovrebbe essere di esempio poiché mostra come, con lo sforzo, la passione, l'impegno e lo spirito si sacrificio, si possa rivoluzionare il mondo con l'eleganza e con le lettere. Citando le sue parole:

"Non restiamo inerti, dunque; non trascorriamo la vita nell'ozio indulgendo alla gola, al sonno e agli altri piaceri al pari degli animali. Infatti, come dice Catone, la vita umana, in un certo modo, è come il ferro: se lo usi, si consuma, ma se non lo usi, la ruggine lo corrode; così, se l'uomo lavora, si logora, ma se non lavora, l'inerzia gli procura più danno dell'attività" (Aldo Manuzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, Adelphi, pp. 51) [...] Io stesso mi meraviglio di aver persistito nel mio proposito giorno dopo giorno con determinazione sempre maggiore e soprattutto di persistere ora, spesso rammentando il verso: Tu non cedere ai mali, ma affrontali con maggior coraggio, tanto più che, mentre sono tormentato e quasi sopraffatto dalle fatiche, mi piace esserne sopraffatto, mi piace essere infelice. Vedo ciò che è meglio e lo approvo, ma seguo ciò che è peggio: sprecando infatti il mio tempo - che è il bene più prezioso - per giovare agli altri son di danno a me stesso; ma sopporterò con animo sereno i miei guai pur di recar profitto, né, se vivrò desisterò mai da quanto ho intrapreso, finché avrò condotto a termine ciò che è stato a suo tempo da me stabilito. E sebbene mi sia gettato in un'impresa superiore alle mie forze [...] tuttavia, con l'aiuto di Dio, ogni cosa sarà portata a compimento per bene e con eleganza" (Aldo Manuzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, Adelphi, pp. 110).

Aldo Manuzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, Adelphi.

Daniele Palmieri

domenica 10 dicembre 2017

Leopardi: Intensamente vivere oppure morire


[Il presente articolo raccoglie gli appunti di una lezione che ho tenuto al Liceo Plinio Seniore di Roma, in data 7/12/2017]

Inizierò l’incontro non da Leopardi, ma da un poeta americano della seconda metà dell’ottocento, Walt Whitman, il poeta migliore da cui partire se si considera la poesia come qualcosa di completamente avulso e distante dalla vita di ogni giorno.

Scrive Whitman:

“Ohimé! O vita! Per queste domande sempre ricorrenti,
per la folla infinita di infedeli, per le città piene di sciocchi,
per il mio continuo rimproverarmi (poiché chi è più sciocco di me e più infedele?)
Per gli occhi invano assetati di luce, per gli oggetti perfidi,
per la lotta sempre rinnovata,
per gli scarsi risultati di tutti, per le sordide folle che
vedo attorno a me avanzare con fatica,
per gli anni inutili e vuoti di coloro che rimangono, con
il resto di me avvinghiato,
la domanda , Ohimé! Così triste, così ricorrente – cosa
c’è di buono in tutto questo? Ohimé! O vita!

[Risposta] Che tu sei qui – che la vita esiste, e l’identità,
che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuire con un verso”.

Stando a quanto dice Borges in un’altra poesia, le pagine che meglio ci descrivono non sono quelle che noi scriviamo, ma quelle di altri autori che nemmeno ci conoscono; e la poesia di Whitiman che vi ho appena citato descrive alla perfezione proprio la vita, il pensiero e le opere di Giacomo Leopardi, autore tanto citato e preso in giro, con i soliti luoghi comuni, quanto poco conosciuto e approfondito.
Affronteremo Leopardi a partire da questi stereotipi, inquadrandolo all’interno della poesia di Whitman per mostrare come poesia e vita fossero per lui due realtà indivisibili, come l’una dipendesse dall’altra e come non sia possibile domandare alla professoressa: “prof, dobbiamo studiare anche la vita o solo le opere?”.
Filo conduttore sarà proprio la poesia di Whitman perché, come vi dicevo, descrive alla perfezione l’essenza del Leopardi.
Come avrete notato, le prime righe descrivono i dolori dell’esistenza, sollevano il dubbio circa il senso di trovarsi in una vita siffatta. Sono molto lunghi rispetto alla seconda parte della poesia, composta soltanto da tre versi; ma questi tre versi sono estremamente intensi e da soli sono in grado di scacciare tutti i dubbi sollevati dalla prima parte. Il senso della vita risiede proprio nella sua poesia, e nel poter contribuire in questa immensa poesia con il proprio verso.
Capire il senso di questa poesia significa comprendere il senso dell’opera e della vita di Leopardi; generalmente, ci si focalizza soltanto sul Leopardi rappresentato dalla prima parte della poesia, ossia sulle molte pagine in cui Leopardi riflette sul dolore dell’esistenza. Ma riflettere sul dolore non significa essere automaticamente depressi; riflettere sul dolore significa prendere coscienza di un aspetto inevitabile dell’esistenza e capire come fronteggiarlo, esattamente come il risveglio del Buddha avvenne quando, uscito dal suo sontuoso palazzo, scoprì la vecchiaia, la malattia e la morte.
L’essenza della riflessione di Leopardi risiede metaforicamente nella seconda parte della poesia di Whitman. La consolazione e la forza per poter fronteggiare tale dolore inevitabile derivano dalla poesia, da una vita vissuta poeticamente e dal piccolo fiore della speranza e della solidarietà che, come la ginestra della poesia omonima, è in grado di sbocciare anche nei territori più impervi e inospitali.
Vedremo ciò cosa significa, e vedremo come questo approccio alla vita allontanerà lo stereotipo di un Leopardi brutto, sfigatino, deforme, chiuso nella sua stanza a leggere e scrivere anziché a vivere.

Anzitutto, gran parte degli anni passati a Recanati furono anni di reclusione forzata. Leopardi aveva una grande tensione nei confronti della vita: voleva viaggiare, vivere, esplorare, ma il padre, rigido ortodosso cattolico, cercava in ogni modo di fermarlo. Il conflitto con il padre accompagnò Leopardi per tutta la vita e non vede per nulla un Leopardi succube e inerme, ma anzi un Leopardi combattivo che fa di tutto per liberarsi dall’egemonia paterna.
Scrive Leopardi dopo il suo fallito tentativo di fuga da Recanati nel 1819:

“La risoluzione ch’io avea presa non era né immatura né nuova. Io l’avea fissata già da un mese, e l’avea concepita fin da quando conobbi la mia condizione, e i principii immutabili di mio padre […]. Io non sono né pentito né cangiato. Ho desistito dal mio progetto per ora, non forzato, né persuaso, ma commosso e ingannato. […] Se mi opporranno la forza, io vincerò, perché chi è risoluto di ritrovare o la morte o una vita migliore, ha la vita nelle sue mani”.

Il conflitto fu anche ideologico; come abbiamo detto, il padre di Leopardi, Monaldo, era un conservatore cattolico e reazionario, mentre Leopardi un materialista ateo. Il conflitto tra i due arrivò a tal punto che nell’anno di pubblicazione delle Operette Morali, il 1831, Monaldo consigliò a Giacomo di rileggere e correggere alcuni brani “nocivi”, richiesta ovviamente non esaudita dall’autore che il medesimo anno, quando il padre pubblicherà i suoi di Dialoghi (Dialoghetti sulle materie correnti), non si esimerà dal definire il testo un “infame e scelleratissimo libro”, in una lettera a Melchiorri (maggio 32).

Tuttavia, siccome il mondo non è mai diviso in buoni e cattivi, bianco e nero, ma è dipinto con sfumature di grigio più o meno scure, ma pur sempre grigie, bisogna riconoscere al padre di Giacomo Leopardi il merito di aver messo in piedi l’immensa biblioteca di casa, composta da decine di migliaia di volumi, che farà non solo da rifugio, ma da cassa di risonanza delle grandi emozioni vissute dal nostro autore. Se non fosse stato per la grande cultura ed erudizione di Leopardi padre, probabilmente il genio di Giacomo non avrebbe mai potuto esprimersi in tutta la sua immensità.

Ed è proprio dalla biblioteca di Leopardi che ripartiremo ora per sfatare il secondo mito, quello di un Leopardi che passa la sua esistenza a piangere e deprimersi sulle pagine dei libri.
Leopardi era depresso? No, era malinconico; potrebbe sembrare la stessa cosa, ma la differenza tra depressione e malinconia è abissale.
La depressione è uno stato di perpetuo grigiore, in cui ogni cosa risulta senza sapore, scevra di interesse e in cui ogni oggetto su cui si posa lo sguardo sembra svuotato di qualsiasi senso. La vita risulta un trascinarsi, un pendolo perennemente oscillante tra noia e dolore, come dirà uno spirito molto affine al Leopardi, Schopenhauer.
La malinconia, al contrario, nasce da una sovrabbondanza di vita, da una vita vissuta intensamente in ogni aspetto e in ogni emozione, soprattutto di gioia e tristezza. Anzitutto, la malinconia implica l’aver vissuto un’intensa felicità e un grande senso e valore attribuito alle cose e ai momenti vissuti; una serie di momenti estremamente intensi, che ci hanno fatto vivere in una condizione al di là del tempo e dello spazio e che nel momento stesso in cui finiscono ci ricatapultano nella realtà di ogni giorno, mostrandoci così sia come la vita possa effettivamente essere vissuta in maniera estremamente intensa, sia come tale intensità sia impermanente e mai eterna, nonostante ci abbia illuso con il suo carattere sovratemporale. La consapevolezza di questa impermanenza provoca un inevitabile sentimento di tristezza, che però non è mai da solo, proprio perché accompagnato dal lascito dei bei ricordi vissuti e dalla speranza che quella intensità di vita vissuta possa tornare. E dalla giustapposizione di queste due intense emozioni contrastanti, ma allo stesso tempo complementari, ecco che nasce la malinconia.
Lungi dall’essere un depresso cronico, stanco di vivere e desideroso di morire, Leopardi amava la vita; la amava così tanto che la sua tristezza derivava proprio da un amore smodato nei confronti delle sue bellezze, della sua intensità, dell’unicità di ogni momento vissuto, e da questo intenso turbinio, simile al vortice che nell’inferno dantesco trascina Paolo e Francesca, nasce la sua perpetua malinconia, plasmata dal genio di Leopardi nella sua altrettanto intensa opera letteraria. Per questo vita e poesia nell’esistenza leopardiana sono inscindibili; la poesia non è un alienarsi dalla vita, né essa nasce in uno studio buio e stantio, illuminato soltanto da una candela che proietta sui fogli l’ombra della gobba di Leopardi; la poesia, come una fonte sotterranea, sgorga direttamente dalla terra della vita, e la rende ancora più intensa. Come scrive lo stesso Leopardi: “Ma infine, la vita dev’essere viva, cioè vera vita: o la morte la supera incomparabilmente di pregio” (Operette Morali, Dialogo di un fisico o di un metafisico).
La grande intensità emotiva vissuta in un puro stato di malinconia spalanca le porte a un sentimento ancora più immenso e impetuoso: il sentimento dell’infinito.
L’infinito è un altro dei grandi temi del Leopardi, noto soprattutto a partire dall’omonimo Canto e dall’ancor più noto “e naufragar m’è dolce in questo mare”. Anche in questo caso, una dei concetti leopardiani più noti è tra i meno conosciuti. Cosa significa per Leopardi l’infinito? Non è soltanto un’immagine poetica astratta in cui naufragare come delle amebe inermi e rachitiche spiaggiate dietro una siepe. Infinito, intensità di vita vissuta e felicità vanno di pari passo.
La malinconia è suscitata dalla consapevolezza della fugacità del momento, e allo stesso tempo suscita il desiderio che i momenti gioiosi possano durare per un tempo indefinito. Desiderio che, come abbiamo visto, non può che essere disilluso. Tuttavia, l’uomo è fatto per anelare all’infinito, e lo dimostra il fatto che non può fare a meno di scorgerlo al di là dell’orizzonte del mare, come scrisse Hermes Visconti, filosofo italiano misconosciuto contemporaneo di Leopardi; vi è qualcosa in lui che lo protende verso l’eternità e vi è un modo per poter vivere questa eternità, assaporando un attimo infinito che, come una cassa di risonanza, amplia le emozioni vissute e permette di assaporare l’eternità tanto agognata.
Come scrive nel primo brano de le Operette Morali, Storia del genere umano, Giove donò all’umanità dapprima il mare, per fargli assaporare tale infinità, e poi “risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente desideravano […] fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare), creato l’eco lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il popolo de’ sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme il pensiero degli uomini, figurasse loro quella pienezza di non intelligibile felicità che egli non vedeva modo a ridurre in atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali esso medesimo, se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale”.
Nel mondo sono molteplici gli scorci di infinito, dall’eco al sogno, dalle grotte ai paesaggi, e si rivelano innanzi agli occhi di chi è in grado di guardare all’esistenza poeticamente. Nella storia narrata da Leopardi l’umanità si stufa presto di questo sentimento, che viene così dimenticato; ma il problema non è tanto del sentimento in sé, quanto di un’insoddisfazione insita nell’animo umano che tuttavia può essere sradicata, sradicando così la radice di ogni suo male. E per sradicarla bisogna recuperare l’antico sguardo poetico sull’esistenza, proprio ciò che Leopardi fa ne l’Infinito, in cui l’intenso sentimento non nasce da un mare o da uno spazio sterminato, né dal paesaggio circostante, bensì da una semplice siepe e dallo spazio che, proprio perché nascosto allo sguardo, cela un infinito che proprio perché nascosto può essere intuito e immaginato, come una rivelazione che folgora all’improvviso, anche nelle più piccole cose. In uno dei canti più noti di Leopardi, infatti, l'infinito si dispiega non di fronte a un mare sterminato o a un paesaggio senza fine, ma innanzi a una semplice siepe e all'infinito che essa cela

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, se sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensieri mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensiero mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare”.


Daniele Palmieri

Incontro con i ragazzi tenuto al Liceo Plinio Seniore, Roma, 7/12/2017

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