martedì 29 maggio 2018

Elevarsi a Dio dimenticandosi di Dio. Daniel von Czepko e i Seicento distici di sapienti

Daniel von Czepko è stata una personalità poliedrica dell'umanesimo seicentesco. Umanista, filosofo, teologo, poeta, giurista, medico, politico e, non ultimo, mistico tedesco, il suo amore per la conoscenza non conobbe limiti e la sua figura rappresenta magistralmente l'ideale del Sapiente antico, che non si limita a specializzarsi in un'unica materia ma che riconosce l'intrinseca connessione tra tutti gli ambiti del sapere. 
La sua vasta produzione, così come la sua figura, è poco nota in Italia e tra i pochi testi tradotti vi è il Seicento distici di sapienti, recentemente edito da Lorenzo de' medici press, promettente casa editrice fiorentina.
Seicento distici di sapienti di Daniel von Czepko è un testo straordinario, che unisce la mistica di Meister Eckart al rigore dei distici morali attribuiti a Catone il Censore e alla poesia delle quartine di Omar Khayyam. Non a caso ispirarono la fiammante poesia di Angelo Silesio.
Come suggerisce il titolo, il testo è una raccolta di distici, brevi componimenti poetici formati da una coppia di versi che, come le sentenze di Eraclito o come i koan zen, sono incisivi, taglienti, fulminanti e illuminanti, in grado di colpire con la rapidità e la forza di un martello, con tanto di scintille.
La raccolta è divisa in sei centurie, sei libri ciascuno dei quali formato da cento distici e a ciascun libro è dedicata una sfumatura dell'esperienza mistica, tracciando così un sentiero spirituale che, in sei gradini, eleva il lettore attraverso la poesia. Una poesia che allude e che, proprio per la brevità dell'espressione letteraria del distico, non svela mai i segreti che nasconde ma, anzi, li cela, riservandoli esclusivamente all'iniziato in grado di cogliere il nesso tra le righe. Ma è proprio celando che il distico, allo stesso tempo, è in grado di svelare la propria sapienza nascosta, innestando la volontà di conoscere e il sentimento che, dietro il paradosso, vi è qualcosa di più profondo, che non può essere conosciuto con la razionalità o l'irrazionalità, ma che può essere carpito soltanto trascendendo gli ordinari limiti mentali.
Ogni centuria è introdotta da un richiamo, ciascuno dei quali introduce la sfumatura mistica del libro successivo, dando al lettore una chiave di volta per interpretare i distici e per cogliere l'insegnamento spirituale che si cela dietro di essi. In ordine, i sei richiami (già di per sé un insegnamento) sono:

Richiamo a chi legge/più pensare che leggere
Richiamo a chi cerca a fondo/L'Uno-Tutto nell'Uno.
Richiamo a chi ha sguardo penetrante/Il più bello è lassù.
Richiamo ai liberati/Non secondo le parole, ma secondo il senso.
Richiamo agli spirituali/In interiorità e umiltà.
Richiamo ai beati/Santifica il sabato.

Come si può notare già a partire dai lapidari richiami, ritornano i temi e gli insegnamenti cari alla mistica tedesca di Eckhart e Boheme, che a partire dalla rivolta protestante inaugurata da Lutero ha sempre prediletto un approccio personale, individuale, emotivo e senza mediazioni alla rivelazione divina, piuttosto che l'approccio "letterario" ed "erudito" che passa per le sacre scritture. Ne nasce così una mistica viva, infervorata di passione e poesia, che si volge non tanto alla scrittura quanto al silenzio, all'intimità, alla contemplazione del mondo circostante, a una ricerca frenetica di Dio non nella lettera morta, ma nella vita e nel mondo. 
Il silenzio, come dimensione dell'interiorità, si fa portatore di grandi verità, molto più del vaniloquio dei teologi, poiché pone l'anima a diretto colloquio con un Dio che si nasconde proprio nelle sue profondità. Scrive Czepko: 

"Tacendo ho imparato di me stesso assai più/Che da cent'anni di chiacchiere di molti saggi" (Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press, p. 38).

Questa mistica interiore, a tratti spregiudicata, che vede l'ordine divino che si nasconde in ogni cosa, giunge perfino a mettere in dubbio l'esistenza concreta di Paradiso e Inferno, considerati alla stregua di condizioni dello spirito piuttosto che di luoghi concreti, di salvazione o dannazione eterna. Paradiso è lo stato di eterna quiete, distacco e atarassia proprio dell'anima illuminata, ricongiuntasi in Vita con Dio ed elevatasi spiritualmente al suo rango, fino a divenirne un tutt'uno. Inferno, al contrario, è intorno a noi, in ogni momento in cui ci facciamo rapire dai turbamenti dell'esistenza. Ma in ogni caso Dio è sempre presente, come forza creante e ordinatrice, come spirito divino che infonde il proprio Lògos in ogni cosa e che dunque è sempre manifesto anche quando occulto. Scrive von Czepko:

"Qui paradiso, là inferno: non darti pena di loro,/sopra quello, sii certo, e sotto questo c'è Dio" (Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press, p. 46).

Se Dio è il Lògos onnipervasivo, l'alfa e l'omega che si estende dall'Inferno al Paradiso, ne consegue che il suo Verbo non si trova soltanto nella lettera delle Sacre Scritture, ma soprattutto nel meraviglioso mondo che ci circonda. Anzi, volendo vedere le Scritture ne sono un'ipostasi inferiore, una sorta di testimonianza di seconda mano, giacché la realtà stessa porta impresso il sigillo del creatore che l'ha plasmata. Dice il mistico tedesco:

"L'erba stessa è un libro: se cerchi di aprirlo,/puoi conoscere il creato e avere ogni sapienza" (Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press, p. 68).

La via della conoscenza divina passa anche per lo studio meditato e attendo dell'opera del creatore, a tal punto che la ricerca spirituale viene da Czepko assimilata all'arte alchemica. L'alchimia mostra infatti non solo l'eterna trasmutazione delle cose, ma i meccanismi che soggiacciono dietro la natura e che, una volta compresi e riprodotti, elevano l'uomo alla potenza creatrice di Dio:

"Scomponi metallo ed erbe, contempla la loro essenza/Sperimenterai quanto possa la seconda creazione" (Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press, p. 91).

L'uomo stesso deve compiere verso se stesso una trasmutazione alchemica, per distillare la propria anima dalle impurità, scomporla dal corpo e ricongiungersi a Dio, in un'operazione per nulla semplice, che passa anche per la sofferenza e per il dolore, una vera e propria lotta come quella del legno e del fuoco:

"La fiamma avvolge il legno e ne fa tutto un fuoco,/e lì no vedi pace finché i due non sian uno" (Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press, p. 47).

Ma è proprio superando il conflitto che l'uomo deve dimostrarsi degno della divinità, pari al suo rango, poiché:

"Chi Dio vuol vedere, deve elevarsi alla sua essenza:/Poiché Dio vuol mostrarsi solo a Dio e null'altro" (Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press, p. 119).

Un conflitto che non si conclude con la vittoria e la sconfitta di nessuno, ma con l'eterna conoscenza del mistico oblio. L'uomo si ricongiunge a Dio elevandosi al suo rango soltanto nella misura si dimentica non soltanto di Dio, ma perfino di se stesso, annichilendosi nella tenebra divina in cui non vi è più alcuna distinzione né tra uomo e Dio, né tra Dio e mondo, né tra Dio e se stesso, ma solo un abisso di "ignoranza eterna", assimilabile per certi versi al Nirvana Buddhista:

"Se in Dio vuoi sprofondare, e nel suo abisso/Non devi ricordarti di Lui, e neanche di te" (Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press, p. 90).

In conclusione, Seicento distici di sapienti è un testo imprescindibile non solo per chi si occupa di mistica tedesca, ma per qualsiasi ricercatore spirituale che voglia comprendere l'essenza della tensione mistica. 
Da lodare l'iniziativa della Lorenzo de' Medici Press e il suo coraggio di proporre al pubblico italiano una perla dimenticata della cultura occidentale, tradotta da Giovanna Fozzer e magistralmente curata da Marco Vannini (massimo esperto e traduttore di Mesiter Eckhart, a cui è stato dedicato un altro volume della collana).

Daniel von Czepko, Seicento Distici di Sapienti, Lorenzo de Medici Press

Per ulteriori informazioni: http://lorenzodemedicipress.it/

Daniele Palmieri

martedì 22 maggio 2018

Tarchetti: Storia di una gamba e altri racconti fantastici

Iginio Ugo Tarchetti è stato uno degli esponenti di spicco della Scapigliatura milanese, movimento letterario nato nella seconda metà dell'Ottocento a partire dall'esempio della vita e delle opere di Cletto Arrighi.
La Scapigliatura fu un movimento letterario estremamente innovativo e anticonvenzionale; in un'epoca in cui si stava definendo una sorta di canone letterario italiano, dalle tinte patriottiche, a tratti moralistiche, che tendeva a unificare tanto la lingua quanto la cultura degli italiani, la Scapigliatura fu una voce fuori dal coro. Sull'esempio dei Bohemien parigini, gli scapigliati vivevano una vita al limite, ai margini della società; facevano dei caffé, dei parchi, dei marciapiedi la loro casa, e narravano storie di vita comune, ispirate alle loro stesse vicende, sempre in bilico tra il realismo e il fantastico, con una grande influenza del simbolismo e della narrativa gotica alla Edgar Allan Poe.
Tarcheti si inserisce a pieno regime in questo filone narrativo, e nel suo unire fantastico, realistico, gotico e grottesco può essere considerato non solo uno degli esponenti più importanti della Scapigliatura, ma un Edgar Allan Poe nostrano che tanto nella vita quanto nelle opere portò alla luce quell'aspetto ineffabile e oscuro della condizione umana. Un'oscurità grottesca, sia inquetante sia ironica, che alberga tanto nell'animo degli uomini tanto in quelle incrinature nel cosmo che non riusciamo a spiegarci, e che riflettono una natura sconosciuta, in cui a regnare non è la razionalità ma un principio sconosciuto.
La presa di coscienza di questa realtà "altra" dà vita al sentimento del perturbante, indagato in tutte le sue sfaccettature in Storia di una gamba e altri racconti fantastici, recentemente riedito da Eretica Edizioni (con una mia introduzione e post-fazione). Il perturbante è un sentimento di straniamento che nasce nell'uomo quando, in una realtà ordinaria, si verifica un evento straordinario, che non può essere spiegato con i canoni consueti della ragione.
E' quello che capita al protagonista di "Storia di una gamba" che, a seguito della perdita della gamba in guerra, inizia a vivere un tormento interiore causato da una sensazione stritolante di "oblio". Egli infatti percepisce che la gamba ha varcato anzitempo la soglia verso l'al di là, e lui stesso si sente dunque dilaniato tra il mondo sensibile e il mondo ultraterreno, quasi fosse vivo e morto allo stesso tempo, in una terra di confine che disturba e porta alla pazzia proprio perché incomprensibile, incerta.
Tarchetti riscopre, con i suoi racconti, il potente significato simbolico che certi oggetti, eventi o parti del corpo (come nel caso della gamba) sono in grado di esercitare sulla mente dell'uomo la quale, lungi dall'essere un calcolatore razionale, cova in sé il seme della follia, che altro non è se non una nuova prospettiva della realtà.  Follia che può essere innescata proprio da tali oggetti simbolici che attivano dei meccanismi psicologici rimossi. Come scrive l'autore nel preambolo de I Fatali:

"Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un'influenza sinistra sugli uomini e sulle cose che li circondano? E' una verità di cui siamo testimonii ogni giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva, avvezza a non accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna sempre di ammettere. Se noi esaminiamo attentamente tutte le opere nostre, anche le più comuni e le più inconcludenti, vedremo nondimeno non esservene una da cui questa credenza ci abbia distolti, o a compiere la quale non ci abbia in qualche maniera eccitati. Questa superstizione entra in tutti i fatti della nostra vita" (Tarchetti, Storia di una gamba e altri racconti fantastici, Eretica edizioni, p. 78).

Con le sue novelle, Tarchetti riscopre il mondo oscuro che la luce della ragione non sempre è in grado di penetrare, e immerge il lettore in un viaggio tortuoso, ricco di insidie, pericoli, pazzia; un viaggio che tuttavia è importante compiere proprio per prendere coscienza del fatto che la visione positivistica delle cose è solo un lato della medaglia, e che proprio quando ci accomodiamo su di essa ecco che, inebriati della nostra ignoranza razionalistica, si manifesta un singolo evento in grado di farci sobbalzare.
Indagare l'ignoto, paradossalmente, è l'unica attività che ci consente di preservare la nostra sanità mentale. O, meglio, che ci permette di ampliare i limiti della nostra coscienza, per assumere la consapevolezza che la vera follia è la normalità. Come scrive Tarchetti:

"Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quando nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per certe leggi d'influenze di cui non abbiamo ancora potuto indovinare interamente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e incoscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo tutte queste influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l'una sull'altra, riunire in un solo centro di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo della materia. Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra fede [...] ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e dinanzi ai rapporti che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato" (Tarchetti, Storia di una gamba e altri racconti fantastici, a cura di Daniele Palmieri, Eretica Edizioni).

Tarchetti, Storia di una gamba e altri racconti fantastici, a cura di Daniele Palmieri, Eretica Edizioni.

E' possibile acquistare il libro sul sito della casa editrice:

Daniele Palmieri

L'arte di affrontare la vita con il Manuale di Epitteto

In un'epoca di "spiritualità spicciola", in cui basta pensare positivo per risolvere ogni problema e conquistare tutto ciò che si vuole, in cui ogni risultato spirituale deve essere ottenuto subito e senza sforzo e in cui la direzione spirituale è finita in mano a guru e santoni improvvisati, spesso senza l'adeguata preparazione culturale, il Manuale di Epitteto è un toccasana.
Il Manuale di Epitteto è un testo scritto quasi 2000 anni fa, ma le parole di questo filosofo stoico vissuto nel II secolo d.C. sono più profonde, efficaci e attuali della gran parte dei testi contemporanei di coaching, self help, pensiero positivo, riordino, hygge e compagnia.
Il Manuale è un breve libello che compendia gli insegnamenti di Epitteto; compilato da un suo allievo, Arriano, che assistette alle sue lezioni, la filosofia che permea l'intero testo potrebbe essere riassunta come un'arte di affrontare la vita.
A un primo approccio il testo potrebbe sembrare eccessivamente asettico, rigoroso, a volte pessimista e senza pathos. Ma lo sembra proprio perché siamo imbevuti da anni di pensiero positivo, in cui ogni cosa deve andare per il verso giusto, ogni cosa deve essere così come la desideriamo e in cui tutto andrà sempre per il meglio, se solo lo desideriamo.
Epitteto, con poche parole, sembra quasi rivolgersi a questi nuovi maestri del XXI secolo e spazza via tutti questi pensieri non solo controproducenti, ma anche dannosi, che sollevano migliaia di aspettative senza tuttavia spingere l'uomo a cambiare per davvero e a intraprendere un serio sentiero spirituale.
Fin dalle prime battute, il filosofo stoico, come Buddha, mette in guardia l'uomo sull'essenza della vita: la vita è fatta di sofferenza, di dolore, di malattia, di prove, di fatica. Ciò non significa che la vita sia un male di per sé, ma lo diventa nella misura in cui non siamo in grado di comprendere da dove derivano le nostre sofferenze e, soprattutto, come possiamo esercitarci ad affrontarle e superarle.
Il fulcro del dolore umano risiede in una semplice distinzione effettuata da Epitteto fin dalle prime righe del testo:

"Di quante cose vi sono al mondo, alcune dipendono da noi, altre no. Dipendono da noi l'opinione, l'appetizione, il desiderio, l'avversione e tutte le nostre opere, Non dipendono da noi il corpo, i beni esteriori, gli onori, la dignità, e tutto ciò che non è opera nostra. Le cose che sono in nostro potere sono di natura libere, poderose, e indipendenti da qualsiasi ostacolo; ma quelle che non sono in nostro potere sono effimere, schiave, sottoposte a impedimenti, straniere. Sappi dunque che, se prendi per libere quelle cose che di natura sono schiave, e le cose straniere per proprie, ti sentirai impedito, afflitto, turbato; accuserai gli dèi e gli uomini. Ma se considererai tuo solo ciò che possiedi, e straniero ciò che non possiedi, com'è realmente, nulla ti sarà di ostacolo, non dovrai riprendere o incolpare nessuno, non farai nulla contro voglia, nessuno ti nuocerà, non avrai alcun nemico e non subirai nulla di avverso" (Epitteto, Manuale, Nero d'inchiostro (Youcanprint), p. 18).

Il pensiero positivo insegna l'esatto opposto rispetto a quanto, invece, suggerisce Epitteto. Il pensiero positivo insegna a desiderare, desiderare, desiderare, riempiendoci così di speranze e ottusa voluttà. Non che desiderare sia sbagliato, tutt'altro; ma bisogna anzitutto capire cosa val la pena desiderare e, soprattutto, bisogna prima "farsi le ossa" e lavorare non su ciò che vogliamo, ma su ciò che siamo, coltivando i nostri beni interiori. Se, infatti, i beni esteriori non sono soggetti alla nostra volontà, possiamo perderli in ogni momento e se affidiamo ad essi la nostra felicità, la consegniamo così nelle mani del caso. Un giorno siamo felici, poiché abbiamo ciò che ci rende felici; un altro giorno, invece, tutto questo ci viene strappato e ci troviamo senza nulla.
Al contrario, il sapiente ripone prima tutta la sua gioia in se stesso; coltiva i propri beni interiori: l'anima, la volontà, la virtù e la scelta morale, stabilendo una serie di norme di vita da seguire per vivere in perfetto equilibrio con se stesso e con il mondo, comprendendo così che l'unico bene di cui necessità per poter vivere felice è la propria interiorità. La gioia è una propensione alla vita che nasce spontaneamente quando ci si accorge che tutto ciò che abbiamo è un vano ornamento, un vestito che indossiamo ma che non ha alcuna influenza su ciò che siamo veramente. Come dice Epitteto in un altro passo straordinario del Manuale:

"Non inorgoglirti per nessuna cosa che non ti appartiene. Se un cavallo dicesse con orgoglio: io sono belli, ciò sarebbe ancora comprensibile. Ma quando con arroganza tu dici: ho un bel cavallo, sappi che ti stai vantando di un pregio che è proprio del cavallo. Cosa vi è, in esso, di tuo? Soltanto l'uso che fai di questa rappresentazione. Ora, quando nel fare uso di queste rappresentazioni ti regoli in base alla norma della natura, ben puoi vantarti, perché ti vanti meritatamente di un bene che è tuo" (Epitteto, Manuale, Nero d'inchiostro (Youcanprint) p. 22).

Gli unici beni di cui si dovrebbe andare orgogliosi sono i beni interiori, soprattutto le virtù che il filosofo è in grado di sviluppare per vivere al meglio la propria vita. Con virtù (in greco: areté) non bisogna intendere una serie di norme morali fissate e dogmatiche, ma le potenze dell'anima che la fortificano per resistere alle intemperie della vita. La virtù è una "tensio", una tensione dell'anima, che si può esercitare e sviluppare mediante l'esercizio esattamente come si esercitano e si sviluppano i muscoli del corpo. Per questo in Epitteto ritornano spesso i paragoni tra pratica filosofica e attività olimpiche. Il filosofo che si esercita a vivere al meglio è come l'atleta che si esercita ad affrontare una gara; può stancarsi, all'inizio, ma con il passare dei giorni la resistenza aumenta, ed è proprio quella fatica a incrementare il potere del suo corpo. Può cadere o perdere, ma in lui vi è anche la forza di rialzarsi, e quando vincerà svaniranno tutte le sconfitte precedenti, e il suo capo sarà circondato della corona d'alloro come se non avesse mai perduto. 
L'allenamento filosofico consiste nel vivere nel mondo ma, allo stesso tempo, senza lasciarsi coinvolgere dal mondo. Il filosofo stoico immaginato da Epitteto è sempre presente e inserito nella realtà quotidiana ma allo stesso tempo non vi appartiene, la guarda con distacco, come se fosse solo di passaggio. Ciò in ogni ambito della vita: con i beni materiali, con le persone, con gli affetti, con le cariche pubbliche, con gli onori. Potrebbe sembrare un concetto freddo, ma anche in questo caso bisogna penetrare nella mente di Epitteto nel comprendere cosa intende con "distacco".
Il distacco nasce dalla presa di coscienza della inevitabile vanità di tutte le cose. Se qualcosa esiste è destinata a finire; è solo una questione di tempo. Inevitabilmente vi saranno beni, rapporti, onori, condizioni sociali che intesseremo ma che saranno destinati a svanire, o con la nostra morte, e in tal caso abbandoneremo tutto ritornando nel quieto grembo originario della Natura, o con la loro dipartita quando ancora siamo in vita. Riflettere e accettare questa ineluttabile verità è fondamentale per non vivere sballottati dal dolore e dagli eventi. Si tratta di prepararsi mentalmente a vivere il distacco dalle cose, con la consapevolezza che prima o poi questo distacco avverrà. Ciò non significa vivere una vita triste, depressa, senza cuore e senza affetti; al contrario, implica una gioia perenne che sgorga dalla consapevolezza che ogni singolo attimo è unico, irripetibile. Una gioia che nasce nel nostro animo, e che per questo dipende da noi e non è legata agli oggetti esterni, e che dobbiamo vivere con controllo, con un equilibrio misurato. Una metafora bellissima con cui Epitteto esprime questo concetto è quella del simposio. La vita, secondo Epitteto, non è altro che un grande simposio, e noi dobbiamo comportarci di conseguenza:

"Pensa di comportarti come a un simposio. Qualche vivanda che va intorto si avvicina a te? Prendi la mano e prendine con modestia. Questa passa? Non trattenerla. Ancora non arriva? Fa in modo che il tuo desiderio non trascorra lontano, ma aspetta finché essa non sia dinnanzi a te. Così devi fare rispetto ai figli, alla moglie e alle ricchezze e agli onori. In questo modo, sarai degno di banchettare con gli dèi. E se, quando ti sono offerte queste cose, tu non le prendi, ma le rifiuti, non solamente sarai parte della mensa degli dèi, ma ti eleverai al loro potere. Comportandosi in questo modo Diogene ed Eraclito, e altri ancora a loro simili, giustamente divennero e furono chiamati divini" (Epitteto, Manuale, Nero d'inchiostro (Youcanprint), p. 26).

Epitteto, Manuale, Nero d'inchiostro (Youcanprint).

Per chi volesse approfondire, ho personalmente editato, curato e pubblicato una nuova edizione del Manuale di Epitteto: https://www.amazon.it/Manuale-Larte-affrontare-vita-Epitteto/dp/8827828702/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1526983781&sr=8-1&keywords=epitteto+l%27arte+di+affrontare+la+vita

Su Nero d'inchiostro trovate inoltre un ulteriore approfondimento dedicato alle Diatribe, altra opera di Epitteto: http://nerodinchiostro.blogspot.it/2016/10/epitteto-diatribe-manuale-download-stoicismo-giudizio-morale-liberta.html

Daniele Palmieri

Aleister Crowley: Il Libro della Legge

Dopo aver parlare del Crowley occultista (Magick) e del Crowley letterato (Il testamento di Magdalen Blair), tratteremo ora del Crowley "mistico", sebbene, anche in questo caso, valga l'avvertimento anteposto all'articolo dedicato a Il testamendo di Magdalen Blair, ossia che è impossibile separare una delle innumerevoli sfaccettature del pensatore dalla sua visione olistica e totale.
Il testo su cui ci focalizzeremo in questo articolo è il libro più noto di Aleister Crowley; un libro che ha rivoluzionato l'intera sua produzione artistica, filosofica, occulta e letteraria e, in generale, che ha rivoluzionato l'intera sua vita. Sto parlando de Il Libro della Legge (The Book of the Law), un vero e proprio testo sacro e magico scritto nel XX secolo, forse tra i testi più influenti dell'intero '900.
E' impossibile scindere il Libro della Legge dalle vicende biografiche di Crowley che lo portarono alla luce, ed è dunque fondamentale ricostruire il contesto in cui nacque per comprenderne la portata mistica.
Ci troviamo nel 1904 al Cairo. Crowley si trova in Egitto in compagnia della moglie Rose, una delle tante "Donne Scarlatte" che lo accompagneranno nel corso della sua vita e, forse, la più importante, visto il ruolo che ella ebbe nella stesura del Libro della Legge.
Crowley si era ritirato al Cairo per approfondire i suoi studi magici ed esoterici, come i grandi pensatori del passato (si pensi, ad esempio, a Solone e a Platone, che proprio in Egitto si recarono per nutrirsi di millenaria conoscenza).
In un'epoca in cui l'Egitto non era ancora investito dal turismo di massa e gli antichi luoghi sacri preservavano ancora la purezza misteriosa e illibata dei millenni passati, Crowley varca la soglia della Grande Piramide di Cheope, per passarvi una notte insieme a Rose, per compiere un antico rito propiziatorio rivolto alla moglie incinta. L'esoterista britannico tentò di evocare i Silfi, gli spiriti dell'aria, affinché propiziassero la nascita di quello che ai suoi occhi sarebbe stato un nuovo profeta.
In seguito al rituale, Rose cade in una trance mistica, quasi fosse invasata da uno spirito ancestrale, e comincia a ripetere le parole: Ti stanno aspettando! Ti stanno aspettando", per diciotto volte di seguito, fino a pronunciare un inno dedicato al dio Thot, dopo il quale rivela a Crowley che è Horus il Dio che lo sta aspettando.
L'aspetto peculiare di tutta questa vicenda, oltre alle vicende in bilico tra realtà e leggenda, è che la moglie Rose era pressoché a digiuno di studi esoterici, eppure non solo aveva pronunciato un inno sacro dedicato a un Dio a lei ignoto, ma è anche in grado di rispondere con estrema precisione alle domande di Crowley circa le caratteristiche del Dio Horus.
Per avere un'ultima prova di quanto avvenuto in quella notte, e per convincersi che la moglie fosse stata effettivamente visitata da un Dio, Crowley si recò con lei al museo di Bulaq, chiedendo a Rose di individuare una stele raffigurante il Dio che la aveva visitata. E, con sommo stupore, Rose identifica la stele di Ankh-ef-en-Khonsu, raffigurante proprio il Dio Horus, e che per di più portava il numero: 666. Il numero della bestia dell'Apocalisse che Crowley, fin da ragazzo, aveva assunto per indicare se stesso.
Nei giorni a seguire gli episodi medianici si ripetono fino a quando la moglie non rivela a Crowley che, tra le notti dell'8, del 9 e del 10 aprile avrebbe ricevuto la visita del daimon Aiwass, messaggero di Horus che già aveva fatto loro visita nella notte passata alla Grande Piramide, prendendo possesso del corpo di Rose.
E proprio in queste tre notti nasce Il Libro della Legge, sotto l'influsso del daimon Aiwass che avrebbe dettato a Crowley, parola per parola, i tre capitoli di cui è composto il testo, in lunghe e intense ore di scrittura automatica e medianica.
Ognuno dei tre capitoli è la manifestazione di un Dio, la "nuova" trinità a fondamento della religione che Crowley avrebbe fondato dopo tale esperienza mistica: Thelema (parola greca che significa "Volontà").
La prima dea a manifestarsi è Nuit (o Nut). Nuit è la Grande Madre, identificata con il cielo stellato. Nuit è la polarità femminea, incarna il mistero e il fascino delle tenebre, le forze occulte che si celano sotto il velo dell'universo. Testimonianza di un antico influsso "ginocentrico" e lunare, è la dea dell'amore mistico ma anche sensuale e sessuale; si unisce all'iniziato in un amplesso infinito, avvolgendolo con il suo corpo di notte e di stelle. La sua legge è l'Amore; l'amore libero ma allo stesso tempo l'amore consapevole, come recita un celebre passo della sua rivelazione: I,57: Invocami sotto le mie stelle! Amore è la legge, amore sotto la volontà! Non lasciare che i folli fraintendano l'amore; per loro ci sono amore e amore. C'è la colomba e il serpente".
Ritorna il fondamentale concetto di "Volontà", di cui si è già ampiamente trattato parlando di Magick. La Volontà magica è la forza che deve catalizzare tutte le altre energie, perfino quella apparentemente istintiva e istintuale dell'amore. Anche nella più pura estasi, l'iniziato deve mantenere il controllo, accumulare e indirizzare le forze primordiali senza lasciarsi trascinare da esse.
Il secondo dio a rivelarsi è Hadit. Hadit è il principio mascolino, complementare a Nuit. Se Nuit è la dea lunare, Hadit è il dio solare, che incarna e sprigiona la forza maschile. Dice il dio Hadit, rivelandosi: II,6: Sono la fiamma che brucia nel cuore di ogni uomo, e nel nucleo di ogni stella. Io sono la Vita, e l'elargitore della vita, ma quindi conoscermi significa conoscere la morte".
Se Nuit rivela all'uomo come vivere nella notte, Hadit gli rivela come vivere nella luce; una luce che deve essere sprigionata dal cuore stesso dell'uomo, secondo l'altro versetto noto del Libro della Legge che recita: Ogni uomo e ogni donna è una stella. Una volta sprigionata questa energia interiore, tutto il mondo si colma di estasi. Dice Hadit: "II,9: Ricorda con tutto te stesso che l'esistenza è gioia pura; che tutto il dolore non è altro che un'ombra; questi passano e vanno; è quella, invece, a rimanere". Similmente a Dionisio, Hadit è anche il dio dell'ebbrezza; l'ebbrezza mistica, che, come l'amore, deve rimanere sotto la volontà, seguendo l'altra nota massima: Fai ciò che vuoi sarà la tua legge, laddove il volere non è il volere egoistico e soggettivo, ma la Volontà del sé mistico e divino, che si è elevata al rango del volere degli dèi che tutto vogliono e tutto possono, ma il cui oggetto della volontà è sempre divino, pari al loro rango.
Vi è infine Ra Hoor Khut, ultimo dio che inaugura l'epoca del Figlio. Forza sprigionata dall'unione di Nuit e Hadit, della luce e delle tenebre, Ra Hoor Khut è un dio complesso, conflittuale, scintille di bagliore e oscurità. Un dio energico, feroce, guerriero, che vive del conflitto degli opposti dal quale è nato. Rappresenta le forze ataviche che muovono il cosmo, la potenza conquistatrice del Dio Marte, la forza dell'iniziato che, dopo aver appreso la rivelazione, deve avere il coraggio di osare e combattere per conquistare il suo posto nel mondo e vivere secondo i suoi principi. Esclama Ra Hoor Khut, nel tumulto della battaglia: III,46: Ti porterò vittoria e gioia; sarò nelle tue braccia in battaglia e sarà delizioso uccidere. il successo è la tua prova; il coraggio la tua armatura; avanza, avanza, nella mia forza; e non voltarti per nessuno!
In conclusione, Il Libro della Legge di Aleister Crowley è un testo visionario, che condensa tutte le doti poetiche, letterarie, mistiche e occulte del controverso esoterista inglese. Come Magick, è un testo pericoloso, poiché immerge l'uomo in quelle forze occulte e ataviche che, una volta sfiorate, è difficile controllare, secondo il motto di Nietzsche: Se guardi troppo a lungo nell'Abisso, sarà l'Abisso a guardare dentro di te. Ci si può avvicinare per studio, ma non certo per gioco; le forze di cui parla, così come il sistema di magia sessuale sotteso all'intero pensiero di Crowley, possono sembrare suadenti e a portata di mano, ma rischiano di trascinare in un pozzo, senza via di fuga, nel momento in cui non si è in grado di gestire le energie sprigionate. In queste terre oscure vale ciò che Brjusov scrive nel Rrmanzo "L'Angelo di fuoco": "Il mago vive sotto la costante minaccia d'una morte tra i tormenti, e solo con un'attività indefessa e un'estrema concentrazione della volontà riesce a tenere a bada gli spiriti infuriati, pronti a dilaniarlo con mandibole ferme a ogni momento. Una legione intera di mostri orribili spiano ogni passo del mago, e stanno attenti che non dimentichi nulla, che non ometta una qualsiasi piccola precauzione, per scagliarglisi contro come rapaci" (L'Angelo di fuoco, Valerij Brjusov, E/O Edizioni).
Tuttavia, è un testo da affrontare e da leggere, poiché uno dei capisaldi del pensiero esoterico e magico del XX secolo, e si potrebbe affermare che non sia possibile comprendere gran parte del '900 senza aver letto questo libro. Non solo perché innumerevoli artisti, sia del mondo pop sia del mondo underground, si ispireranno proprio alel opere di Crowley, ma perché l'intero '900, nelle sue guerre e nel suo splendore, nella sua grandezza e nel suo fanatismo, fu mosso da forze del tutto simili a quelle manifestatesi a Crowley.
 
 
Aleister Crowley, Il Libro della Legge, Nero d'inchiostro (Youcanprint)
Per chi volesse approfondire, ho tradotto, curato ed editato personalmente una nuova edizione del testo: https://www.amazon.it/libro-della-legge-inglese-italiana/dp/8827828710/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1526982516&sr=8-1&keywords=crowley+libro+della+legge
 
Daniele Palmieri


domenica 20 maggio 2018

Eliphas Levi: Gli Eggregori. Le forme-pensiero che dominano gli uomini

Il termine "eggregore" è poco conosciuto, spesso anche a chi si occupa di occultismo ed esoterismo, eppure è veicolo di una delle concezioni più affascinanti del pensiero occulto.
Il termine "grigori" è utilizzato nella letteratura ebraica per indicare le creature eteriche come angeli e demoni, e ricorre spesso nel Libro di Enoch per descrivere quelle entità che, invidiose della condizione umana, si unirono con le figlie degli uomini dando così origine alla stirpe dei giganti.
A portare alla ribalta il termine nel mondo dell'esoterismo, a metà del XIX secolo, vi fu Eliphas Levi, che in un suo articolo, intitolato appunto "Gli Eggregori", scrive:

"Gli Eggregori sono delle Divinità. Gli Eggregori sono gli spiriti che animano e creano le forme. Sono nati dal respiro di Dio. Dio riposa nella natura e il mondo è il suo sogno. Dormendo, Egli aspira e respira. Il suo soffio crea gli eggregori".


Riprendendo la concezione gnostica di un universo generato a più livelli, dove la Terra è soltanto una delle ultime emanazioni di un Dio ineffabili e trascendente, Levi considera gli eggregori come una delle molteplici emanazioni della divinità. Un Dio, che, tuttavia, è dormiente e il cui sogno genera queste entità che possono essere tanto benevole quanto malevole.
Nel processo di frammentazione del sogno, gli Eggregori sono definite da Levi come delle "forme-pensiero", ossia delle entità che, una volta generate dal soffio di Dio, incarnano una molteplicità di poteri attraverso i quali sono in grado di influire sul mondo materiale. Comprendere il termine "forma-pensiero" è essenziale per capire in fondo il concetto di "eggregore". Secondo la distinzione Aristotelica, la materia inerme soggiace alla forza della forma creatrice, che stabilisce l'essenza delle cose. Una "forma-pensiero" può dunque essere intesa come una forza mentale che è in grado di assumere potere sulla materia.
L'aspetto "collettivistico" dell'Eggregore è fondamentale, poiché esso si nutre della molteplicità di idee, credenze, opinioni e da esse trae forza e viene evocato. Da questa prospettiva, Eggregori non sono creati soltanto da Dio, ma possono essere generati involontariamente anche dalle collettività che catalizzano una medesima idea, evocando una "forma-pensiero" la quale, dacché nata dagli uomini, diviene dapprima una sorta di "guardiano" di quel gruppo, ma può assumere un potere così grande da divenire un "arconte", un dominatore delle menti dei singoli uomini. Gli individui del gruppo iniziano così a essere dominati dalla "forma-pensiero", dall'Eggregore che ha espanso il proprio potere psichico sul materiale attraverso la sua influenza sulle collettività.
Come accennato in precedenza, la forma-pensiero può essere sia benigna sia maligna.
Prometeo, ad esempio, è un Eggregore positivo, l'uomo allegorico che combatte quotidianamente la propria battaglia contro gli dèi per la liberazione, e che conia in sé le battaglie di ogni singolo uomo. E' una "forma-pensiero" generata dai travagli spirituali dell'uomo e dalla sua posizione intermedia all'interno della catena degli esseri in cui, come scrive Levi:

"sembra esserci una lacuna: l'uomo, anello vivente di questa catena, può osservare e toccare l'anello che è immediatamente sotto di lui, la scimmia o il gorilla o lo scimpanzé, ma non vede e non tocca l'anello che è immediatamente sopra di lui. Ecco perché gli antichi saggi hanno immaginato l'uomo invisibile, che essi hanno chiamato angelo o demone".


Ma l'Eggregore è un'entità spirituale molteplice, ed esistono numerosi casi di forme-pensiero negative. Basti pensare al fondamentalismo religioso, in cui il Dio di una certa regione venerato da una setta diviene una vera e propria "forma-pensiero", in grado di manipolare il comportamento degli uomini anche a costo delle loro stesse vite.
Gli Eggregori sono inoltre soggetti a lotte reciproche per il dominio e l'espansione della loro influenza e in questa lotta, tanto è più grande la statura degli Eggregori (ossia tanto più grande è la collettività che li ha evocati), tanto più distruttivo è il risultato del conflitto. Scrive l'esoterista francese:

"Per gli insetti, che calpestiamo senza vederli, noi siamo Dei ciechi e pesanti; e per altri dei infinitamente più grandi, rispetto a noi, noi siamo degli insetti invisibili. Gli eggregori si combattono, schiacciano i popoli come formicai e neppure sanno che noi stiamo soffrendo e moriamo".


Per fuggire dall'influsso negativo degli Eggregori bisogna preservare la propria individualità sul percorso spirituale, senza lasciarsi infatuare dalle sette e dalle aggregazioni che rischiano di evocare realtà superiori al loro stesso potere. Bisogna inoltre elevarsi al di sopra di queste "lotte intestine", poiché espressione di emanazioni inferiori della realtà trascendente di Dio, che si trova al di là del mondo frammentato e conflittuale, in cui gli stessi Eggregori non sono altro che formiche. Ridimensionato dalla prospettiva divina, l'Eggregore perde potere e l'uomo saggio può smettere di temerlo, poiché:
 
"L'uomo ignorante e debole che soffre la fatalità diventa schiavo e giocattolo degli eggregori; ma il saggio è al di sopra di loro, perché Dio è la luce del saggio. Gli Eggregori hanno timore di Dio, il saggio ama Dio e per conseguenza non lo teme. Egli non deve sacrificare agli dei e neppure a Dio; egli sacrifica con Dio e come Dio, perché il sacrificio è l'essenza della divinità dell'uomo".


Eliphas Levi, Eggregori, Edizioni fuoco sacro, traduzione e cura di Filippo Goti.

Daniele Palmieri

martedì 15 maggio 2018

Ambrogio di Milano: Exameron. La natura maestra di verità

In una sua recente monografia su Ambrogio, Franco Cardini definisce l'esistenza del vescovo di Milano come una "sublime e tormentosa grandezza". 
Non si sarebbero potute condensare con definizione migliore la vita e il pensiero di Ambrogio che, lungi dall'essere un santo, fu un uomo grandioso e tormentato, dalle numerose sfaccettature e contraddizioni le quali, lungi dallo sminuirne la figura, contribuiscono a renderlo una delle personalità più importanti della storia, della teologia e della filosofia occidentale.
Purtroppo, al giorno d'oggi Ambrogio è conosciuto più per le leggende che circolano sul suo conto, per il folklore popolare milanese, per i riti ambrosiani che annualmente si celebrano in città, per le nozioni da "catechismo" sulla sua vita e sulla sua santità. Poco, invece, si sa dell'Ambrogio pensatore e politico, e lo scarso interesse nei suoi confronti, anche nel mondo accademico, è testimoniato dalla scarsità di testi su di lui e dalla difficoltà di reperirne gli scritti in traduzione italiana.
Eppure, Ambrogio fu un pensatore grandioso, nonché una delle personalità politiche e religiose più abili della storia. Fu Ambrogio a dare una svolta decisiva alla storia politica della Chiesa in età tardo-antica, e sempre Ambrogio contribuì, con le sue omelie, a diffondere l'insieme di simboli e credenze che influenzeranno l'immaginario collettivo dei secoli a seguire, tanto nell'architettura quanto nella teologia e nella letteratura, per tutto il medioevo.
Tra le sue opere più grandiose vi è l'Exameron, il Commento ai sei giorni della creazione, un ciclo di nove omelie tenute nei giorni precedenti alla pasqua, per celebrare la grandezza del creato in tutte le sue sfaccettature. Scritto sul calco dell'Exameron di Basilio di Cesarea, il testo di  Ambrogio è tuttavia una rielaborazione personale e creativa, che si ispira soltanto all'impianto dell'omonimo testo del padre orientale, arricchito con le doti letterarie e poetiche del vescovo di Milano e con numerosi riferimenti alle condizioni politiche a lui attuali. 
La straordinarietà di questo ciclo di omelie risiede nel loro essere un connubio di poesia, letteratura, teologia, biologia, filosofia. Esse non sono atte ad ammaestrare e ammansire il popolo, ma a istruirlo. Con la sua grande preparazione culturale, Ambrogio è in grado di intessere discorsi appassionati, che esortano alla virtù e alla fede a partire sia dall'esperienza quotidiana sia dall'esperienza del mondo circostante, oltre che, ovviamente, dalla conoscenza delle Sacre Scritture.  
Le parole di Ambrogio guidano attraverso la creazione di un mondo che brulica di vita, gioia, festa, felicità. Dio è paragonato a un ragno che silente tesse la sua tela, creando così una rete perfetta, armoniosa, in cui ogni parte è in armonia con il Tutto. "L'opera ti riempe di meraviglia" [Exameron, I,9] esclama il vescovo di Milano, contemplando la realtà che lo circonda ed esortando i fedeli riuniti all'ascolto a contemplarne la bellezza. Numerosi sono i passi in cui il vescovo di Milano esorta gli uomini a contemplare la realtà che li circonda, a colmarsi della bellezza divina che permea ogni cosa, sfatando così il mito della teologia cristiana "cupa", che vede nella materia una sorta di crogiolo del peccato. No, per Ambrogio ogni elemento porta il marchio divino e perfetto del suo Creatore; memorabili, ad esempio, le sue parole dedicate alla campagna in fiore:

"Ma che splendore è quello della campagna in fiore, che profumo, che incanto, che consolazione per i contadini! Se avessimo a disposizione soltanto le nostre parole, non potremmo potremmo descriverle degnamente, Però ci soccorrono le testimonianze della scrittura, da cui apprendiamo che l'incanto della campagna è il termine di paragone per la benedizione e i meriti dei santi, poiché Isacco dice: L'odore del mio figliuolo è come l'odore di una campagna fiorita. Perché dunque descrivere le mammole dal colore di viola, i gigli bianchissimi, le rose vermiglie, i campi dipinti di fiori giallo-dorati, ora screziati, ora arancio acceso, dei quali non sai se più ammirare la bellezza o il profumo penetrante? Gli occhi si saziano di uno spettacolo tanto piacevole, il profumo si effonde tutto all'intorno, colmandoci della sua fecondità [...] Osservate il giglio dei campi, com'è intenso il candore dei loro petali, e come questi, inoltre, strettamente congiunti, si aprono come sollevandosi dal basso in alto, formando un calice, ove dentro rifulge una preziosità simile all'oro, che però tutt'intorno è ben difesa dal fiore, che la ripara da ogni oltraggio!" (Ambrogio di Milano, Exameron, Tea Edizioni, pp. 93-94)

Dedicando ciascuna omelia a uno dei giorni della creazione, Ambrogio si sofferma a descrivere il cielo e la terra, il vento e l'acqua, il mondo nella sua complessità e nella geografia all'epoca conosciuta, gli esseri viventi che popolano il creato, dalle piante, ai rettili, ai pesci, ai mammiferi fino ad arrivare all'uomo. In questo modo, Ambrogio istruisce il popolo fornendogli gli strumenti conoscitivi di base, rendendo le sue omelie una vera e propria "scuola" di cultura generale, in cui nulla è lasciato al caso e in cui ogni fenomeno naturale viene analizzato, così come la sacra scrittura, tanto nel suo significato "letterale" e "materiale", tanto nel suo significato morale e anagogico. Alle omelie di Ambrogio si ispirerà la fiorente letteratura dei bestiari e dei lapidari medievali, in cui ogni in ogni elemento fisico e naturale viene rintracciato un significato morale, atto a istruire l'uomo e a elevarne la coscienza. 
Sviscerando la natura in ogni suo aspetto, ogni elemento diviene un simbolo, ossia una manifestazione del divino (o teofania) che permette di ricongiungersi a Dio e alla sua perfezione, innalzando l'uomo alla sua immensità. Anche in una semplice pigna, se osservata con l'occhio dell'intelletto, è possibile contemplare la perfezione del tutto. Dice Ambrogio:

"E chi, nel vedere la pigna, non stupirebbe che una così artistica simmetria si sia potuta sviluppare e imprimere nella natura per comando divino, formandosi da un unico centro con sporgenze tutte uguali, benché di diversa proporzione, con le quali proteggere il frutto? Sicché una stessa figura e regolare disposizione si mantiene identica in quella forma circolare, e nelle singole parti c'è come un nuovo prodotto che eccede per dimensione sugli altri, però l'aspetto elegante del frutto forma nell'insieme una rotondità perfetta. Direi perciò che nella pigna la natura ha come espresso un simbolo di se stessa, a partire dal primigenio comando celeste di Dio, essa conserva le prerogative ricevute, e ripresenta i suoi frutti nell'ordinaria successione delle stagioni, finché non sia perfettamente compiuto il ciclo degli anni" (Ambrogio, Exameron, Tea Edizioni, pp. 116-117)

Anticipando la grande filosofia della natura di filosofi come Rosseau, Thoreau ed Emerson, Ambrogio esorta l'uomo a ritornare alla semplicità della natura, a cogliere dalla sua bellezza e dalla sua meraviglia gli insegnamenti in grado di colmarlo di grazia divina, in grado di fargli recuperare la primordiale purezza dell'Eden, diffondendo così l'idea, che diventerà fondamentale nella filosofia medievale, secondo la quale è possibile conoscere Dio attraverso due libri: la Sacra Scrittura e il Libro della Natura, prima maestra di vita. Dice il vescovo di Milano:

"La sapienza divina penetra tutte le cose e tutte le riempie, e questo lo deduciamo molto più copiosamente dalle varie facoltà degli esseri viventi privi di ragione, che non dalle dispute di quelli dotati di ragione; in realtà, la testimonianza della natura è più efficace di tutte le argomentazioni della scuola [...] In realtà, la natura è la miglior maestra della verità" (Ambrogio, Exameron, Tea Edizioni, p. 234).

Ma oltre all'aspetto didattico e mistico, le omelie di Ambrogio sono anche un grande esempio di realismo politico, e posero le basi della concezione politica della chiesa dei secoli a seguire. La famiglia di Ambrogio era discendente dell'antica gens Aurelia, espressione dell'aristocrazia repubblicana latina ed ereditaria di quell'antico spirito repubblicano scavalcato da Cesare e da tutti gli imperatori a seguire. E il medesimo spirito permea anche il pensiero di Ambrogio, che delinea i tratti di una Chiesa di stampo repubblicano, in cui tutti i fedeli sono uguali sia dinnanzi a Dio sia dinnanzi alla legge, civile ed ecclesiastica, in cui non si fanno preferenze in base al ceto di origine e in cui, anzi, i ricchi sono tanto più lontani dalla beatitudine, tanto maggiore sarà la disuguaglianza sociale, l'oppressione dei poveri e dei deboli, l'avidità nei confronti delle risorse e dei beni terreni. Ambrogio stesso ebbe il coraggio di donare gli ori della chiesa per sfamare il popolo milanese in un momento di difficoltà.
Questo perché, erede anche della tradizione filosofica ellenistica, Ambrogio ripone le vere ricchezze non negli effimeri tesori materiali, ma nella ricchezza interiore dell'anima che ciascuna serba nel proprio scrigno corporeo. Un'anima creata a diretta immagine e somiglianza di Dio, e siccome tutte le anime portano impresso il sigillo del Creatore, allora non può esservene una migliore di un'altra, poiché tutte possiedono il tesoro più grande che può essere insozzato non dalla povertà, ma soltanto dal vizio. La virtù morale, che eleva l'uomo a Dio, è la ricchezza più preziosa che ciascun uomo può coltivare, e che rende anche il più povero dei contadini superiore al più ricco dei re. Allo stesso tempo, la più sontuosa delle dimore non è nulla in confronto al Creato, reggia sublime a disposizione di ogni uomo e nei confronti della quale nessun ricco può reclamare la prerogativa. Scrive Ambrogio:

"Gli elementi sono stati donati in società a tutti gli uomini, e gli ornamenti del mondo sono a disposizione dei ricchi come dei poveri. Forse i soffitti dorati delle abitazioni più lussuose sono più belli della volta del cielo, trapunta di stelle sfavillanti?  Forse i poderi dei ricchi sono più estesi della terra spaziosa? Per questo, ben a ragione è stato detto a quella gente che aggiunge palazzo a palazzo, podere a podere: Resterete forse soli ad abitare la terra? Tu, povero, possiedi una casa più grande [...] La casa di Dio è aperta al ricco e al povero; però è difficile che un ricco entri nel regno dei cieli. Ma forse ti rammarichi di non avere nessun lampadario d'oro che ti faccia lume: però, ben più raggiante, la luna ti rischiara, diffondendo d'attorno il suo chiarore. [...] O pensi che siano felici coloro che escono stipati da turbe di schiavi accodati? Ma se hanno bisogno di piedi altrui, è segno che non sono capaci di servirsi dei propri [...]. Credi che sia splendido dormire su letti d'avorio, e non pensi quanto sia più splendida la terra, che distende sotto il povero erbosi giacigli, ove è dolce il riposo, gradevole il sonno che quell'altro invoca e non può prendere, rimanendo sveglio tutta la notte, pur accomodato in mezzo a sponde dorate" (Ambrogio, Exameron, Tea Edizioni, pp. 262-263)

Per saperne di più su Ambrogio, il 19 maggio 2018 terrò, a Milano, la prima Passeggiata di  Meraviglia in collaborazione con la Tlon, in cui a partire dai simboli della basilica di Sant'Ambrogio esporrò la vita e il pensiero di  Ambrogio e Agostino: https://www.facebook.com/events/2083199308590214/

Ambrogio di Milano, Exameron. Commento ai sei giorni della creazione, Tea Edizioni.

Daniele Palmieri